Pochi giorni fa, Carola Susani ha pubblicato su facebook questo inedito di Tommaso Giartosio:
Aspettando Napoli
Quella volta sedevi
sulle panche di pietra
vecchie ma non antiche
della Stazione Termini
e un silenzio fra noi
l’hai subito usato
per guardare il viavai di
quel luogo dove nulla
mai sta nulla mai termina
e tutti vanno via
e mentre ti vedevano
(una vecchia) e tu
li guardavi passare
(tu giovane ma antica)
“come la riva il mare”
hai scrollato la testa
e hai sorriso e poi
hai detto:
Mi piace
la gente – alta, bassa,
magra, grassa.
E ho pensato:
La poesia, siamo noi
Mi è subito tornato in mente Stigma, la sezione di una sola poesia che chiude COME SAREI FELICE (Collana Bianca Einaudi, 2019 – pagine 127):
Nella vetrina del Japanese restaurant
Se ti sbucciassi amore come
una cipolla, amore
e lo facessi ancora
e ancora, e ancora, amore
al centro troverei ancora
non il tuo ma il mio cuore.
E ponendo sul pollice
quel fuso viola, amore
lucido, laccato come
questo sàmpuru – amore –
quanto sarei solo.
Come sarei felice.
Le ultime tre parole del libro, con potenza retroattiva, avvolgono con sigla profonda l’intero libro. Come ho imparato scrivendo un romanzo strutturato in sequenze, l’ideale è partire dalla fine e farsi tutto il percorso all’indietro, soprattutto se si desidera comprendere cosa davvero comunica un corpo scritto che noi per abitudine percorriamo in una sola direzione, e invece risalito a ritroso ci riserva molte più sorprese, molte più notizie, molte più rivelazioni.
Anche Tommaso Giartosio lo ha capito, come dimostrano certi suoi componimenti in questo libro:
Ripenso a te quando mi volto piano
e guardo la mia spalla, e mi rammento
di te che posi il capo sonnolento
sulla mia spalla, in un giorno lontano.
Ritorno a te, se osservo la mia mano
tracciare sulla pietra il movimento
con cui sfioravo la tua pelle: sento
sotto le dita la tua pelle: strano.
Se rivedo risplendere il tuo corpo
nell’ombra del mio corpo, e mi rispecchio
in te per riconoscere me stesso,
prima che muoia mi sarà concesso
di rimediare in me brutto, in me vecchio,
te con bellezza, giovinezza, morte?
[dalla sezione Perdersi, in COME SAREI FELICE]
***
Le case sono bianche, il cielo è blu,
la terra lunga e liscia come il mare.
Ma ho visto la mattina presto andare
silenziose alla riva, scender giù
nell’acqua calma e morbida, le più
antiche e cupe donne, le più rare
a metter capo fuor del limitare
di casa, per dolore o per virtù.
Nell’ora strana scendono il sentiero
e vanno, loro troppe volte madri,
a ricongiungersi a un dio vecchio e stanco,.
Salpano piano; il grande av7bito nero,
non tolto mai dalla morte dei padri,
s’intride d’acqua e galleggia di fianco.
Parlano, cantano. Il volo severo
di un pellicano attraversa i riquadri.
Le case sono blu. Il cielo è bianco.
[dalla sezione I viaggi immaginari, in COME SAREI FELICE]
Risalire la corrente del libro, non tanto per una sorta di indagine ipnotica, quanto per cogliere più compiutamente il valore dei risultati rispetto ad ipotetiche premesse, tutte da interrogare, permette di identificare l’io-poeta, che non è il poeta tout court, ma la sua proiezione letteraria, oggettivo riflesso in cui leggere segni più netti, più chiari, in una diagnosi poetica suffragata da una anamnesi.
In questa chiave è estremamente significativa la sezione centrale, La stellina, che è letteralmente il ROMANZO DEL PADRE. Molto mi pare sia stato detto su questo capitolo di vita e racconto, esistenza e destino. Io voglio precisare solo due aspetti. Lo scambio, che avviene sostanzialmente, in certi passi, tra il padre e il figlio, una latente e, in alcuni passaggi, acclarata coincidenza tra i due, che fa toccante la poesia che questa identità suggerisce, e in alcuni momenti disegna. E poi il segno grafico della stellina che lentamente evolve, da stellina piena a cinque punte a stellina vuota in campo pieno, a puntina da disegno, a stella alpina (Edelweiss), ad asterisco, a stella di David, a stella marina, a stella cometa, per tornare ad essere stella piena a cinque punte. Un testo particolarmente rivelatorio, con un fantasma che si palesa, e non è il padre. Andando ancora indietro, il sentimento di tenerezza per il padre perduto e sotto certi aspetti sconosciuto per incoincidenza temporale, la nostalgia del comune non-vissuto che viene sognato e nel sogno si incarna, nel ricordo appunto impossibile, nel confronto reale con una IDEA DI PADRE che è un SENTIRE IL PADRE attraverso il poco pervenuto al figlio, è non solo struggente, ma anche benedettamente autentico nella letteratura che su di esso si edifica e che lo rafforza rendendolo concreto e universale, anche in una sorta di scia biblica.
Sono il figlio o la pietra con il tuo nome,
il portavoce del tuo silenzio, padre, ancora
sveglio tra le lenzuola fredde di questa
notte di padri che appaiono ai figli e nei figli
e figli ai padri e nei padri,
notte di guardie e ladri.
Sono non so se non me, o non te, o non so che.
Mi stringo a un corpo di carne non tua che
Si stringe a un corpo di carne non mia, ma ti ho
Stretto tante di quelle volte quando parlo
Che il tuo vuoto mi vuole
Il freddo mi sembra saldo.
Mi compaiono accanto il foglio e la penna
e scrivo il nostro nome: ma scompare
come pietra nel mare.
Con la barchetta di carta,
col nero remo di carne,
riprendo a navigare.
[da Le notti bianche, in COME SAREI FELICE]
Ho valutato a lungo come introdurre, dare l’avvio – diciamo, a questo breve intervento della nostra rubrica su Tommaso Giartosio che dopotutto ha esordito in volume nella poesia solo l’anno scorso proprio con Come sarei felice – Collana Bianca Einaudi, anche se alcuni suoi componimenti compresi nel libro di recente uscita erano apparsi alla spicciolata nel 1996 e nel 2014 su Nuovi Argomenti. Ci ho riflettuto per un po’ perché devo ammettere che la poesia di Tommaso Giartosio è, tutta, talmente bella, compiuta, avvolgente, sapiente, definita cioè linguisticamente tornita, meticolosa e sognante (il sogno ha un posto molto rilevante in questa raccolta, che ha persino i connotati, per certi versi -!-, del romanzo in versi) che ho avuto difficoltà a decidere a cosa dare la priorità su cosa.
Io sono Arnaut che ammassa l’aura
[…]
Ti indosso ogni mattina e ti porto
indosso fino a sera.
Cerco lo struscio
mi rendono il saluto
sono quello irriconoscibile.
Nella camera da notte
ti sfilo a duello
getto il mantello
entro nell’armadio.
[…]
In un punto qualsiasi della mente
è il centro. Ho visitato questi luoghi
androni silenziosi in cui le idee
attendono, di bocca in bocca p0assano
la stessa sigaretta. La guardavo
con emozione: quel piccolo fuoco.
A sera bisognava andare via,
perdersi per il mondo dopo l’ultimo
fanale dei binari, non sapere,
non essere. Ma nel momento stesso
in cui devo chinare gli occhi vedo
con chiarezza e stupore scintillare
poche dita più in là delle mie labbra
il fuoco. È lui? Sei tu? Chi mi conduce
a essere ombra per essere luce?
[…]
A te, e non ad altri
il primo piano spietato
in cui mi cresco trent’anni
e il contorno è sfocato.
Non so chi ha scattato o quando
o se me ne sono accorto
appena, in un tempo morto
che non ti stavo guardando.
Ho un libro in mano, e né prato
alle spalle né porta né cielo,
solo una luce che è un velo
di polvere sul palato.
Ho il solito sguardo d’agnello (Little lamb who made thee?, WBlake, ndr)
più trenta primavere,
ma non ho neppure un capello
sul punto di cadere, non ho
messo su una ruga, un etto,
casa, famiglia, uno show,
e di certo il libro che sto
leggendo non l’ho ancora scritto:
sono un vecchio ragazzo e
no, non ho mai fatto un cazzo.
Non ho mai incontrato te.
La foto è dell’83.
Mi consumo. Mi confondo.
Tu stai facendo il tuo ingresso.
Sorridi sullo sfondo.
Hai riconosciuto te stesso.
***
Quando la luce è bassa e calda ho voglia
quasi di scorrerti la pelle, ma so
che a te sta veramente vicino
non il delirante romantico vino nelle venerdì
ma la mano a portata di mano.
Nel gesto con cui le distingui
la destra si usa per scrivere
la sinistra per essere scritta.
Si sfiorano s’intrecciano senza mischiarsi
Non hanno mica la sventura dell’ubiquità.
Ti amo come se io fossi qui e tu là
e sono felice come se da sempre fossi vivo.
[dalla sezione Trovare, in COME SAREI FELICE]
Questa sezione,, Trovare, anche nel riferimento ad Arnaut Daniel, il poeta provenzale noto per il suo trobar clus, ci invita, come fa tutto il libro, del resto, a osservare la chiave compositiva che trasforma ogni materia caduca, transeunte, soggettiva, in un trionfo del poetare che libera il potenziale stabile di ogni felice versificazione. E anche qui, come in tutto il libro, troviamo a nostra volta il criterio di variazione e modulazione che permette a Tommaso Giartosio di muoversi agilmente e piroettare tra soluzioni metriche quasi classiche e volteggi più arditi che si spingono fino alla forma della prosa poetica dopo aver esplorato “arrangiamenti” in versi dal distico alla terzina alla quartina fino a strofe che strizzano l’occhio all’ode o oscillano tra grafismi molto radi o radi oppure viceversa corpulenti.
E poi, come sempre, viene la tentazione di rincorrere suggestioni e memorie da tutta la poesia.
Come in questo componimento–
Il sole
I.
Abbiamo fatto all’amore di giorno.
Il sole invadeva la stanza.
Due corpi
in un letto:
tutto
qui.
Importa a qualcuno
di tutto
questo?
Il sole invadeva la stanza.
II.
La congiunzione
avviene
all’ombra delle parole
L’identità, nel sole
del silenzio
–in cui ravvisiamo il chiaro riferimento a The Sun Rising, song di John Donne, poeta barocco inglese, “metafisico”, che canta l’amore ben più duraturo del sole, saucy pedantic nell’intrufolarsi nella stanza e tra le lenzuola degli amanti.
Oppure qui–
Sulle isole
Mattina
“Sembrerà poco vero, un giorno,
questo giorno”. Poi,
addormentarsi piano. E piano
piano il giorno è venuto.
Tre giorni, e con questo quattro…
Non ho contato le notti.
Pomeriggio
Memoria che va, memoria
che ritorna. Come il ricordo
di un amore, di qui a molti anni.
Il calore e la stanza.
I corpi dei corpi… Le parole,
che formerà diverse
– è inevitabile –
la nostra voce: tra molti anni.
Sera
Non riconosco il tuo sorriso
troppo familiare. L’isola
ha voce; tu sei viso.
…Forse come di sera
i pettegolezzi sulle porte,
e intanto, in un luogo aperto,
l’intimità col mare.
Notte
Ogni attimo nega il tempo,
ogni bacio l’amore.
Non più d’isola in isola.
Di notte, di mare in mare.
–un componimento in cui le isole sono le controfigure piuttosto certe di individui soli, monadi, e le fasi del giorno sono anche le età della vita, in una sorta di chiave poetica vichiana.
C’è una grande sapienza in questa poesia, come dirlo meglio?, una flessuosità tecnica, che dona agilità e delicatezza a questa poesia. E mi ha suscitato il ricordo della figura del poeta come lo vidi la prima volta 25 anni fa quando raggiunse me e Pietro Pedace una sera d’inverno al Dipartimento di Scienza del Linguaggio diretto dal prof. Tullio De Mauro: ci apparve, a cavallo del suo motorino, come un pischello, e a me parve subito, dalle poche parole scambiate, che fosse un tipo a posto, uno che sapeva il fatto suo. Era amico di Pietro: come lui era tornato dagli Stati Uniti, Tommaso da Berkeley Pietro da New York, entrambi reduci da un Ph.D, con borsa Fullbright.
Da allora lunga è stata la strada di Tommaso Giartosio, punteggiata da alcuni libri, in genere in prosa, tra romanzo e saggio. Ora questo felice approdo alla poesia, piuttosto rilevante.