ILLUSORIA SPERANZA

Sono seduto al bar, l’unico ancora aperto nel pieno di agosto. Da quanto tempo non lo so.

Sono seduto al bar, l’unico ancora aperto nel pieno di agosto. Da quanto tempo non lo so.

Fa caldo, ogni ora che passa sempre di più, ma non mi importa.

Silvia abita dall’altra parte della strada, le serrande del suo appartamento sono alzate.

Prima di uscire le abbassa sempre, e io aspetto quel momento.

Vorrei poter dire che ci separano solo le quattro corsie di questa strada.

Sembra facile, in fondo: attraverso e sono da lei prima che, vedendomi, possa andare via.

Seguo l’alternarsi, a tempo, del verde e rosso del semaforo. Provo a contare i passi che ci separano.

La calura estiva, però, rende i contorni delle cose sfumati e tremolanti, confondendo le distanze, mentre un rumore sordo, penetrante, ne approfitta per attraversarmi il cervello e distrarre la mia mente dal calcolo.

È l’eco delle parole di Silvia.

Nessun nuovo errore o sei fuori. Dalla mia vita, ovvio. Per il resto, fai come ti pare.

Riprovo a contare, ma ormai non riesco.

Mi assale la sensazione minacciosa di non farcela.

Sudo, non solo per il caldo. Il tentativo di scacciare la paura dell’inutilità della mia attesa, è un crampo che mi serra la gola.

Era un ultimatum il suo, ma io, stronzo, non ci ho fatto caso e ci sono ricascato.

Con una qualsiasi, in una sera qualsiasi, per un motivo qualsiasi.

Dimenticando Silvia, in quel momento preciso.

Tranquillo, respira, mi ero detto svegliandomi all’improvviso in quel letto qualsiasi, sai come devi fare perché questa volta non se ne accorga.

E’ bastato, invece, un messaggio sbagliato e le mie certezze sono crollate in questo mese di tentativi patetici per farmi perdonare.

Afferro i braccioli della sedia per ritornare in questo presente, dove attendo il segnale che mi avvisa che sta uscendo di casa.

Dimmi che Silvia vorrà almeno parlarmi.

Vorrei credere in un Dio qualsiasi, per rivolgere a Lui questa domanda, ma non ne conosco nessuno. Mi sono sempre bastato.

Guardo ancora il semaforo, stavolta è il tentativo disperato di sapere se sono in salvo.

La sequenza dei suoi colori potrebbe contenere la risposta, se solo mi dicesse quale sia quella giusta: verde, avanti, andrà tutto bene. Rosso, stop, ti sei fottuto da solo.

Mi sento un idiota, più di quanto non lo sia stato fino a oggi.

Le serrande dell’appartamento di Silvia ora sono abbassate.

Dal pizzo della sedia sarei pronto per lo scatto, come un velocista al blocco di partenza, invece mi alzo lentamente e raggiungo il semaforo pedonale.

E’ rosso.

Non farti vedere mai più.

Silvia. Lapidaria, immediata, assoluta.

L’asfalto è morbido e appiccicoso per il gran caldo. Saltello, stando attento a non calpestare lo stesso spazio che ho già occupato un momento prima. Non voglio lasciare le mie impronte, né rischiare di rimanere intrappolato in questo mischiume, che sembra volermi trattenere da questa parte del mondo senza lei.

Silvia è sul portone. Riconosco la sua figura snella e l’abito bianco.

Un alito di vento fa ondeggiare mollemente l’orlo della gonna e i suoi capelli neri. Vorrei vedere anche il suo viso, leggere le sue espressioni, ma non riesco, è lontana e so che non è solo distanza fisica quella che ci separa.

Muove il braccio, poi la mano. Conosco questo suo gesto svelto di scostare le ciocche dal viso. Come quando facevamo l’amore e tornavo a vedere i suoi occhi.

Sprofondo. Nell’asfalto caldo e nei ricordi che bruciano.

Ancora questa sensazione minacciosa. L’inferno, è sotto i miei piedi.

Scatta il verde.

Avanti.

Il semaforo sembra incoraggiarmi, offrendomi un’illusoria speranza se non di probabilità, almeno di possibilità.

Inizio ad attraversare la strada. Il mio pensiero corre veloce, mentre i miei passi sono lenti, invischiati nel bitume che cerca ancora di incollare a terra i miei piedi.

Nel deserto di agosto, ci siamo solo Silvia e io.

Vorrei chiamarla, ma strozzo la voce, perché in realtà spero che non si accorga di me, non ancora.

Si è fermata al semaforo. Mi ha visto. Ha le braccia stese lungo i fianchi.

Non è una posizione di resa. Sento che la nostra vita è nei suoi pugni serrati.

Mi sembra di scorgere una smorfia sul suo viso. Forse è un sorriso.

Ecco, ora alza le braccia, distende le mani, allarga le dita.

Un abbraccio o l’abbandono di una presa: in uno stesso gesto, un esito differente.

Rischio.

Silvia, amore, giuro. Mai più.

Urlo stavolta, perché possa sentirmi.

Lei non si muove. Mi guarda.

Sono solo a metà della strada e il semaforo pedonale ora è diventato nuovamente rosso.

Stop. Fermo.

Al diavolo le mie domande idiote e le risposte cercate nei colori del semaforo.

E’ solo un inganno, un’imposizione bugiarda. Non gli do retta. So che posso farcela. Silvia mi sta aspettando.

Faccio uno scatto, senza accorgermi di quell’unica macchina che mi passa accanto, sfrecciando via.

La spinta dell’aria, mi fa fare dei passi veloci e scoordinati.

Inciampo nel bordo del marciapiede ma, chiudendo gli occhi e assaporando già il momento in cui sentirò di nuovo il contatto con la sua pelle, tento l’allungo di un tuffatore per abbracciare le gambe di Silvia.

E’ un attimo.

L’illusoria speranza termina mentre sbatto il viso contro il palo del semaforo.

Cado a terra proprio lì, dove c’era lei e dove ora ci sono solo le sue impronte impresse nell’asfalto, che morbido e caldo mi inghiotte promettendomi l’inferno.

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Ester Arena

Medico legale, vive a Roma. Abituata a cercare e osservare i dettagli patologici, scrive raccontando la vita e l’animo umano, dopo averne sezionato ed esaminato gli angoli bui. Ha pubblicato racconti su magazine letterari e su antologie, il romanzo “Il piano cartesiano dell’amore” (Il seme bianco, 2018) e la raccolta di racconti “Ground Zero” (Ensemble, 2022)

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