Il salto di Clara

Quante volte devo ripeterti che non devi fidarti di nessuno?
Ascolta “"Il salto di Clara" di Ester Arena” su Spreaker.

Clara, sprofondata nella poltrona, sta guardando la televisione abbracciata al suo orso di peluche. Cerca di non fare caso a Luca, il papà, che le si è avvicinato, soppesando nella mano una manciata di spiccioli, mentre nell’altra ha lo scontrino della spesa, ma il tintinnio delle monete la distrae dai cartoni.

“Clara”.

“Sì, papi?”.

“Hai contato il resto, quando hai comprato il pane?”.

Clara diventa subito rossa, vorrebbe dirgli Certo, papà, ma non è brava con le bugie, così resta zitta.

“Mancano 50 centesimi. Li hai presi tu?”.

“No, no”, si affretta a rispondere questa volta.

“Allora non hai controllato”.

“Davide mi dà sempre il resto giusto…”, prova a dire.

“Quindi, è vero che non hai controllato”.

“Mi sono dimenticata”.

“Ti sei dimenticata?”.

“Cioè, non ci ho pensato, ero sicura”.

“Di cosa Clara?”.

“Davide è sempre attento…”.

“E tu? Tu sei una bambina stupida, stupida, stupida, quando fai così. Quante volte devo ripeterti che non devi fidarti di nessuno? Devi fidarti solo di te stessa, e a volte non basta nemmeno quello a salvarti”.

Clara ripete sottovoce le parole di Luca.

“Sei una bambina stupida, stupida, stupida”.

Ha sbagliato a non controllare il resto, ma le monete erano tante, così tante da sembrarle giuste, mentre le ha strette nella sua mano insieme alle caramelle che le ha regalato Davide.

Le caramelle rosse, quelle della nonna, quelle buone. Poi, però, ha pensato alle parole di Luca Ricordati Clara, nessuno ti regala niente per niente, e ha allungato di nuovo il pugno verso il bancone.

“Papà non vuole”, ha bisbigliato con un luccicone negli occhi. 

Davide, sorridendo, le ha risposto: “Sarà il nostro segreto”.

E, allora, lei ha messo in fretta monete e caramelle nella tasca del cappotto ed è tornata a casa. Perciò lo sa che è solo colpa sua, se ora il papà sta alzando il tono di voce. Non le piace quando succede, perché lui si trasforma. Cambia il colore degli occhi, diventa rosso in volto e le labbra si tendono fino a essere linee sottili.

“Ci sono i mostri là fuori, Clara. Possibile che tu non riesca a capirlo? La notte bussano alle porte delle case, vogliono entrare, e tu continui a fidarti della gente senza ragionare”.

“Scusa, papi, non lo faccio più, mi sono scordata, non ti arrabbiare per favore, non voglio sentire ancora di quei mostri”.

Mentre lo dice, si tappa le orecchie con le mani, tira su con il naso e comincia a piangere, ma in silenzio.

Papà le ha insegnato che non bisogna mai far vedere la propria debolezza, perché c’è chi se ne approfitta. E Clara vuole dimostrargli che ora ha proprio capito tutto, anche questo.

Passa qualche minuto, i cartoni sono finiti e c’è la pubblicità. Luca spegne il televisore.

“Aspetta papà”.

“Cazzate, sono tutte cazzate. Nemmeno alla pubblicità devi credere. Sono tutte balle, per far spendere soldi ai creduloni”.

Clara fa cenno di sì con la testa. Vorrebbe dirgli, però, che alle volte la pubblicità le piace, perché lì ci sono le mamme che sorridono e preparano la colazione per tutti. Ma adesso non è il caso e resta immobile, sprofondata nella poltrona. Se potesse, eviterebbe anche di respirare, mentre stringe più forte il suo orso di peluche.

Papà cammina avanti e indietro per la sala, alternando passi lunghi a corti. Quando è contrariato, molto contrariato, fa così.

“Clara, vieni, ora facciamo un gioco”.

“Che gioco?”.

“Uno di quelli di coraggio”.

“Infilziamo di nuovo i vermi?”.

“No”.

L’orso cade sul pavimento, mentre Luca la prende in braccio e le dà un bacio sulla guancia. Clara gli stringe le braccia al collo.

“Abbiamo fatto pace, papà?”.

“Tesoro, mica abbiamo litigato. Voglio solo che tu stia attenta, perché non posso esserti sempre accanto”.

Quando non la rimprovera o non parla dei mostri, papà ha la voce dolce e tra le sue braccia sente un calore diverso, accogliente, più forte di quando lei abbraccia l’orso.

“Sì, sì, ho capito, che gioco facciamo, papi?”.

Anche la voce di Clara è mutata, è tornata allegra e guarda di nuovo il suo papi, con il sorriso negli occhi.

“Ti fidi di me?”.

“Sì”.

“Sei sicura?”.

“Sì, papi”.

“Allora vedrai che ci divertiremo anche questa volta”.

La camera da letto di Clara è una stanza grande. Ci sono due letti perché, quando sta male, Luca dorme con lei, poi i comodini con le lampade, la scrivania, una poltroncina accanto alla finestra, il trumeau con la specchiera, un armadio a muro per i suoi abiti e un armadio più basso, due metri per due, per i suoi giochi e i suoi libri.

“Mettiti in piedi sulle mie spalle e sali sull’armadio”.

“Papi, ma è pulito. Maria ha spolverato anche lì sopra, quando abbiamo messo in ordine”.

“No, tesoro, non devi salire per quello”.

“Per cosa, allora?”.

“Sali e te lo spiego”.

“Però è alto”.

“No, non è alto”.

“Un po’ sì”.

Clara è in piedi sulle spalle di Luca, aggrappata alle sue mani come un’acrobata. Ha imparato al mare come si fa.

“Dai Clara, stai dritta, che ti faccio fare il tuffo con la capriola”.

“Davvero? E come?”.

“Tu non ti preoccupare, devi solo fare come ti dico, senza pensare, senza avere paura”.

Il tuffo era riuscito. Le braccia di Luca l’avevano sorretta e guidata, e lei non aveva avuto paura.

“Sono stata brava, papi? Sono andata su su e poi giù giù”.

“Sei la mia campionessa, amore!”.

Si capiva che papà era contento, tanto, perché le sorrideva, la abbracciava e la schizzava con l’acqua facendo finta di essere un motoscafo. Quella volta, al mare, i mostri che diceva lui non c’erano andati.

Però, anche se il suo papà sa tutto e le cose le riescono sempre, se le fa come dice lui, adesso Clara non è tanto convinta di voler salire sull’armadio e si muove scomposta.

“Sali Clara, che sennò perdiamo l’equilibrio e ci facciamo male tutti e due”.

“Ma che faccio poi?”.

“Poi scendi”.

“Come scendo? Non c’è la scala. Che gioco è?”.

“E’ un gioco di coraggio, ti ho detto”.

Di nuovo quel tono che non le piace. E’ meglio che si sbrighi. Così si siede sopra l’armadio e aspetta. Guarda in basso. Il pavimento sembra lontano, più lontano del mare. Il papà un po’ meno, perché è alto unoeottanta, proprio così, come lo dice fiera alle sue amichette.

“Brava Clara, ora per tornare giù, devi solo saltare”.

“Non sono capace a fare questo salto”.

“C’è il materasso e devi saltare verso di me, così ti prendo prima che tocchi terra”.

“E se non mi prendi?”.

“Come non ti prendo? Pensi che non sono capace?”.

“No, penso – se – non – mi – prendi”.

“Ti fidi di me?”.

“Sì, papi”.

“E allora buttati”.

“E se non mi prendi?”.

“Clara, allora non ti fidi di papà?”.

“E’ alto da qui. Non è come al mare”.

“Non è alto. Vorrà dire che se impari, potrai arrampicarti sull’albero di nonna”.

Clara si dondola col corpo, seduta sull’armadio. Le sembra più facile saltare dal ramo dell’albero, che non da lì.

Non vorrebbe, però, deludere di nuovo papà. Fino alla faccenda del resto della spesa non lo ha mai fatto, nemmeno quella volta con i vermi che le facevano veramente schifo.

“Bleah, sono scivolosi e si muovono. Vogliono scappare”.

“Prendine uno per volta”.

“E poi?”.

“E poi cerca di non schiacciarlo tra le dita”.

“Non posso, papi, non ci riesco e mi viene anche il vomito”.

“Che vuol dire che non ci riesci? E’ facile, guarda”.

Clara aveva guardato il viso allegro di Luca, poi le sue mani e poi le sue dita che tenevano il verme con delicatezza.

“Vedi? Non succede nulla, mica morde”.

“Sì papi, ma è viscido, mi fa schifo”.

“Clara, non fare la bambina piccola. Prendine uno”.

Alla fine, Clara aveva avvicinato le sue piccole dita ai vermi nella ciotola, ma quelli sgusciavano dalla sua presa.

“Vedi? Non si fanno prendere, scappano”.

“Stringi, Clara, stringi un po’ di più e vedrai che uno lo riesci a tenere”.

Clara aveva chiuso gli occhi e aveva stretto un po’ di più, fino a sentire tra le sue dita una cosa della consistenza di una delle sue caccole di quando era raffreddata.

“Brava! Ora metti l’amo”.

Mentre infilzava il verme, le era venuto da piangere. Aveva pensato ai mostri che vengono da fuori, che ti prendono senza che tu te ne accorga. Si era sentita uno di quei mostri e aveva immaginato la paura del verme, ma non lo aveva detto a Luca. Lui, le avrebbe risposto che quello era solo un verme e che lei era una bambina piccola.

Così, anche quella volta, papi era stato contento.

“Allora? Se non salti, resti lì, io ho da fare, mica posso aspettare all’infinito che ti decidi”.

“Perché devo farlo? Non mi piace questo gioco di coraggio. Non mi piace farlo qui”.

“Beh, le cose si fanno dove si può. Se non piovesse, potremmo andare in giardino e provare dal muretto. Ma lì non ci sarebbe nemmeno il materasso per terra. Perciò mi sembra più facile, no?”.

“Non lo so”.

“Ci sono io, ti prendo, te l’ho detto, non ti fidi?”.

“Sì, papà”.

“Allora buttati”.

Clara si accovaccia a mo’ di ragnetto per darsi la spinta, poi tentenna, si siede di nuovo, ma poi si rialza. Deve solo pensare che è un po’ come il tuffo al mare.

Guarda il suo papà, se dice che la prende è così, è l’unico a fare sempre quello che dice.

“Papi, ma tu mi prendi?”.

“Certo, tesoro”.

Clara guarda in basso, poi guarda il papà, gli sorride, sospira e poi salta, sicura di finire tra le sue braccia prima di atterrare sul materasso.

Ma, nell’attimo in cui è ancora sospesa, si accorge che il colore degli occhi di papà è cambiato. Ha il volto rosso e le labbra tese come linee sottili come uno dei mostri che dice lui.

“Non devi fidarti di nessuno…”.

Sente che le sussurra così, papi, mentre si sposta indietro, scoprendo il bordo del materasso su cui sono poggiate una moneta luccicante e le caramelle rosse.

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