Silvia ed Emily

Ancora una voce poetica femminile che si avvicina a quella della Dickinson, stavolta è il momento di Bre

TANDEM #5

Nel recente decennio che si sta chiudendo con questo strano anno, Silvia Bre ha rimesso in questione la traduzione del loose heritage lasciatoci da Emily Dickinson: ecco subito una sua versione di ED,

This was a Poet – It is That
Distills amazing sense
From Ordinary Meanings –
And Attar so immense

From the familiar species
That perished by the Door –
We wonder it was not Ourselves
Arrested it – before –

Of Pictures, the Discloser –
The Poet – it is He –
Entitles Us – by Contrast –
To ceaseless Poverty –

Of portion – so unconscious –
The Robbing – could not harm –
Himself – to Him – a Fortune –
Exterior – to Time –
Emily Dickinson – J448 / F446

Questo era un poeta – colui che / distilla un senso sorprendente / da significati ordinari – / e un’essenza immensa

dalle specie familiari / appassite alla porta – / che ci stupiamo di non esser stati noi / ad afferrarla – prima –

Di immagini rivelatore – / il poeta – e lui – / per contrasto – a conferirci – / povertà infinita –

così ignaro – di spartizioni – / che il furto – non lo turba – / lui stesso – per lui – una fortuna – / avulsa – dal tempo –

–da Questa parola fidata, terza “centuria” di poesie dickinsoniane, su un totale di 1775 ritrovate, piluccate e scelte da Silvia Bre per il volumetto Einaudi uscito nel 2019 dopo le due precedenti “centurie”, Centoquattro poesie (2011) e Uno Zero Più Ampio (2013), sempre con Einaudi. Proprio dopo queste prime ‘uscite’, ho avuto modo di scambiare con Silvia Bre brevi impressioni su COME avesse lavorato sui testi della Dickinson, e in fondo, anche alla luce di quanto ne ha scritto a suo tempo Nadia Fusini, e soprattutto affondando il naso tra le pagine col testo a fronte, salta all’occhio il sistema adottato, piuttosto semplice: tenersi incollata al testo e rispettarlo non solo nei significanti spesso evidenziati nell’originale con le maiuscole di calco germanico (espediente non sempre mantenuto) ma anche con la ‘hyphenation’, cioè l’uso dei trattini che, staccandoli, esalta i segmenti enunciativi del testo e conferisce loro una solennità in cui risuona la severa innologia cui ED si era formata. La Fusini disse di Silvia Bre, ulteriore voce di Dickinson: in più, la Bre decodifica gli enigmi, riallinea la sintassi, (di)spiega il codice, rende avvicinabili i significati – cioè aggiunge, dico io, proprio restando incollata al testo, una chiarezza che è già del testo, ma che chiede d’essere liberata rivelando l’intelligenza suprema delle forme ellittiche, la sottigliezza e la forza sferzante dell’ironia, persino (penso anche Silvia Bre ne sia cosciente) la funzione di continuo omaggio che la poesia della Dickinson documenta ad un amore perduto e a tutte le proprie perdite affettive contro cui la poetessa di Amherst si trincerò murandosi nella poesia.

In una intervista recente su Pangea condotta da Davide Brullo, emerge il dato per così dire militante e autopoietico del corpo-a-corpo che Silvia Bre conduce con i testi della Dickinson, e a mio parere è emerso anche quanto della malìa enigmatica della Dickinson, tra tutte le sue traduttrici, proprio su Silvia Bre di più si è estesa. Il primo incontro tra le due avvenne quando la nostra Bre aveva solo 14 anni: bene, la poesia della Dickinson, da cui pure la poesia in proprio della Bre si tiene a distanza di sicurezza, pure ha esercitato un’influenza.

Ecco qualche assaggio, da Marmo – raccolta Einaudi del 2007:

Ognuno vuole avere il suo dolore
e dargli un corpo, una sembianza, un letto,
e maledirlo nel buio delle notti,
portarlo su di sé tenacemente
perché si veda come una bandiera,
come la spada che regala forze.
Ma c’è persa nell’aria della vita
un’altra fede, un dovere diverso
che non sopporta d’esser nominato
e tocca solamente a chi lo prova.
È questo. È rimanere
qui a sentire come adesso
l’onda che sale nelle nostre menti,
le stringe insieme in un respiro solo
come fosse per sempre,
e le abbandona.
Ma nemmeno la pupilla d’un cieco
dimentica l’azzurro che non vede.

Oppure:

Come qualcosa

che sia rimasto fuori per errore

io vengo a visitarti, casa verissima,

dovunque.

E la visitazione è questa vita

che perde le pareti mentre avanza:

la perdita è infinita, e mi precede,

è accanto,

è alle mie spalle, e vivamente

abita nelle parole come a casa.

E ancora, stavolta da La fine di quest’arte (Einaudi, 2015):

Ecco la notte, ciò che ti oltrepassa

e ti lascia dove non sei

dentro un altro dominio

dentro un altro.

Solo un gallo ancora muto che non vedi

è più che mai il suo canto

nell’aperto di un’idea, in un’alba

che viene e viene tanto che ti svegli.

I testi qui sopra, da fonti diverse del corpus poetico della nostra, mi pare evidenzino alcuni caratteri che sono della poesia di Silvia Bre: una formulazione che in forma più o meno sintattica – cioè piena articolata e logica – (dove più e dove meno) enuclei un sentimento del contrario tale che porti la conduzione del discorso in poesia a divertere sempre da un senso comune scontato o ricevuto e sveli invece come un apriscatole che torce la latta una polpa nascosta, vero cuore e vero fine dei quel dire poetico. In altri testi che qui seguono lo si vedrà anche meglio, ma già in questi si vede, a mio parere anche un tratto dickinsoniano, non nel senso che la poesia di Silvia Bre imita il modello della poeta-sorella ma nel senso che o rifugge apertamente da quel modello oppure lo ha interiorizzato e lo esercita così a fondo che ne condivide i moventi più genuini, una sorta di comune filosofia del poetare – il funambolismo soprattutto che consiste proprio, nel senso interno del testo, nel cambiare verso e direzione, anche nel cambiare marcia, sorta di naturale diversione che in Emily Dickinson generò la proverbiale ‘slant rhyme’ o rima obliqua, che è dopotutto una postura poetica.

Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.

******************

La brevità va riguardata
come la cerva vede
una costa innevata di montagna
da questo crinale esercita
alla morte, dall’altro
inosservata, salta.

******************

dunque l’inverno
il vorticare della vista al gelo delle distanze
l’idea di un tempo cavo mentre infuria la profezia
come canto che muove un altro canto
e la veggenza di chi dalla panchina
farà a meno di un colore alla volta fino all’ombra
fino alla fantasia d’essere cieco
la notte che Lucia si leva gli occhi
e la cosa e il pensiero
infuocano di sé il minuto stesso
per aggiungere giorno al giorno dopo
giorni che torneranno uno alla volta al mondo
piccolissimo luogo della mente
dove il mito si placa e si realizza.

da La fine di quest’arte (Einaudi, 2015)

Qualcuno tempo fa (Antonio Bux, mi pare) faceva notare come la parola non sia solo strumento di indagine del fare poesia di Silvia Bre ma sia anche di quell’indagine il terreno elettivo, e questo ci ricongiunge dopotutto al punto da cui siamo partiti: la traduzione, che, mentre è adesione al testo, è non tanto (come usa dire) tradimento (inevitabile) del testo (molto comodo ragionare così), ma ponte col testo e simbiosi biunivoca. Lo lascio spiegare dalla stessa Silvia Bre, sempre nell’intervista rilasciata a Davide Brullo per Pangea: “Tradurre – non si tratta dell’operazione inerte (che vuol dire proprio ‘senza arte’) di cercare una qualche identità nella nuova lingua, se si considera che non c’è nessuna identità tra le parole e il mondo. Si tratta di proteggere, all’ombra della lingua che ci accoglie, quello che non c’è, l’indicibile che le parole abitano liberamente, quello che suona, da muto, in un verso prima ancora che venga scritto. Si tratta di far risuonare un’immagine. Se tutto questo a priori viene avvertito, l’esito della traduzione è sempre una differenza viva, che si anima delle corrispondenze, delle connessioni della lingua d’arrivo, che si accende al calore di una tensione nuova. Tradurre è ‘una responsabilità abissale’ perché si maneggia l’immagine di un altro e bisogna figurarsi il punto in cui quell’immagine era allo stato sorgivo, era di tutti, prima che venisse intrappolata dal linguaggio. È un atto eminentemente poetico. Di fede poetica. Il terzo libro di Emily porta (infatti, ndr) nel titolo Questa parola fidata. “

Il traduttore, poeta a sua volta, chiede e compie un atto di fede poetica, come invocava Coleridge, e conta sull’”affidamento”, quel procedere all’indietro a occhi chiusi che una volta i registi chiedevano agli attori per saggiarne la plasmabilità, ma che in fondo la poesia ci svela come essenza sopraffina dell’esistenza, questione fondante di ogni squisito poetare.

[…] E io maledetta, che ho scelto / la sua parte, quel buio senza ritegno / in cui cadere, la fine di quest’arte.

Ho ascoltato molte volte Silvia Bre leggere dal proprio ‘canzoniere’ e mi è rimasto impresso un grido, un verso disperato, che non si deve spiegare perché è tutto risolto in se stesso: T’ho amato a morte.

Però per chiudere il cerchio, e in omaggio estremo alla dickinsoniana ‘circonferenza’ o ‘sfera’, sempre dalla terza centuria, vi ammannisco un testo che ha stregato anche Pia Pera, cultrice dell’arte dei giardini, che del primo verso di questo loose piece ha fatto il titolo di un proprio libro,

Ancora non l’ho detto al mio giardino –
perché mi potrebbe sopraffare.
Non ho certo la forza a questo punto
di rivelarlo all’ape –

Non ne farò parola per la strada
stupirebbe le botteghe che io –
quella così ignorante – così timida
abbia la sfrontatezza di morire.

Non devono saperlo le colline –
dove ho vagato tanto –
e non ditelo alle foreste devote
il giorno in cui dovrò andare –

né si sussurri a tavola –
né si accenni sbadatamente
per la via che oggi una entrerà
dentro l’enigma –*

Mi rimane solo da ricordarvi che Silvia Bre è anche la traduttrice di Il Giardino (The Garden) di Vita Sackville – West, poema pastorale (Elliot, 2013). Silvia Bre, poeta e traduttrice.

I hav’nt told my garden yet –/ Lest that should conquer me. / I hav’nt quite the strength now / To break it to the Bee –// I will not name it in the street / For shops w’d stare at me – / That one so shy – so ignorant / Should have the face to die. // The hillsides must not know it – / Where I have rambled so – / Nor tell the loving forests / The day that I shall go – // Nor lisp it at the table – / Nor heedless by the way / Hint that within the Riddle / One will walk today – [Emily Dickinson, J50 / F40].

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