La dragunera di Linda Barbarino è senza dubbio uno degli esordi più sorprendenti e riusciti di questa stagione. Finalista al premio Calvino, pubblicato dall’editore Il Saggiatore, è stato anche distribuito in eBook nell’iniziativa della solidarietà digitale, immagino proprio per la sua forza espressiva. Scritto in un dialetto siciliano mai banale, che diventa nelle mani dell’autrice un linguaggio molto coinvolgente, racconta una storia appassionata e appassionante. Io conosco e seguo l’autrice da molti anni e devo dire che mi aspettavo prima o poi da lei una prova così convincente, anche se non è mai detto che un autore riesca a mantenere le promesse che lascia intravedere quando comincia a scrivere. Lei ce l’ha fatta e allora ecco qui, inevitabile, l’intervista.
Per il tuo romanzo hai scelto una lingua che salta subito all’occhio anzi all’orecchio del lettore fin dalla prima pagina, ti è venuta spontaneamente oppure è stata una ricerca faticosa?
Sì, è stata una ricerca direi risolutiva per il romanzo perché se non avessi trovato la lingua, che è anche la voce, non avrei incontrato le atmosfere e i personaggi e la trama. E’ stata la lingua che a poco a poco li ha tirati fuori. Sai che a questo punto non saprei più dire se è stata faticosa o spontanea? Sicuramente la prima cosa che ho scoperto scrivendo. E’ la mia lingua madre, quindi in qualche modo spontanea lo è, nella quotidianità noi siciliani spesso parliamo in un linguaggio misto tra italiano e siciliano, sentiamo forte l’esigenza di stigmatizzare quanto asserito con un motto di saggezza antica, l’esempio di un personaggio inventato o meno. “ Non fare come Giufà!”, per dirne una ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
Per inventare i protagonisti ti sei ispirata a qualcuno che conosci? Lo so che è una domanda che ti avranno fatto in molti, ma mi piacerebbe proprio sapere che rapporto hai con le tue creature, ti vengono in sogno la notte? Le incontri per strada?
I miei personaggi sono creature autonome, sopratutto i protagonisti. Sicuramente mentre nascevano e si formavano io avevo in testa persone che ho conosciuto o di cui mi hanno parlato però appena si son piantati sulle loro gambe sono andati in giro da soli. Guardarli è un po’ come coi figli di cui tu dici: “Ha gli occhi del nonno… il naso della zia”. Se dovessi dire…quelli che corrispondono di più all’affetto e ai ricordi sono donna Angelina e don Tano e poi ci sono altri che vengono fuori dal ‘cunto’ e si sono impastati coi miei sentimenti, i miei sogni. Agiscono di notte o quando meno me lo aspetto, nel senso che la scena, in cui appunto loro portano avanti l’azione, arriva non necessariamente mentre sto seduta al computer a cercarla, no, in quel momento magari sono io a girare a vuoto ed è meglio allora alzarmi e fare altro, perché i personaggi con i loro bisogni, le loro uscite, arrivano quando mi sto lavando i denti, per dire; in quel momento devo soltanto tenermela stretta in testa la scena per buttarla giù appena possibile.
La passione dei protagonisti è un connotato culturale, regionale, che ne so, siciliano, oppure pensi che anche in un’altra ambientazione avresti realizzato più o meno la stessa storia?
Bella domanda, non so e mi piacerebbe saperlo. Ti dico una mia riflessione recente. L’altra sera (confesso non l’avevo mai visto per intero) ho visto in tv L’albero degli zoccoli e mi è capitato di pensare che rispetto a quei contadini lì, del bergamasco, i nostri avrebbero avuto una gestualità più marcata, un approccio più sanguigno e teatrale alle cose della vita ma è solo una questione di corpi, di forma, perché nei fatti non sarebbe cambiato nulla, e nei silenzi di fronte al destino, nulla.
Non mi pare che venga detto in quale anno è ambientata la tua storia. L’epoca storica conta molto in una narrazione?
No. Intanto perché gli anni ’50 nell’entroterra siciliano, in cui ambiento la mia storia, non sono gli anni ’50 di un qualunque altro posto d’Italia, e meno male perché ho avuto il privilegio di cogliere nell’esperienza mia di bambina e soprattutto attraverso i ricordi degli anziani, un mondo con una sua peculiarità, destinato a morire e di morte violenta. Penso a quanto affermava Pasolini su omologazione e acculturazione che hanno tolto realtà ai diversi modi di essere uomini nelle varie parti d’Italia. Non mi faccio vanto né mi nascondo dietro al cliché, il folclore, il sottosviluppo, non voglio costruire macchiette o bozzetti, imitare questo o quello, volevo far rivivere quel mondo a cui sento di appartenere in quanto tutti e quattro i miei nonni erano contadini.
Ad Enna, città dove vivo e dove ambiento la vicenda, appena fu deciso che diventasse capoluogo di Provincia, vennero distrutti molti edifici storici, magnifici!, del centro storico per dar spazio a palazzoni e strutture littorie; s’insediò un certo ceto impiegatizio che tra cemento e voglia di modernità mise in castigo il mondo contadino. Non me ne vogliano i miei concittadini ma credo che una certa borghesia nutra disprezzo e si faccia vanto di misconoscere il dialetto. E dico pure che il fatto che qui si trovasse il più importante centro legato al culto demetriaco nel mondo greco, dopo quello di Eleusi, è notizia per enclave di archeologi impegnati come Sisifo nella ricerca di stele scomparse e vie sacre e teatri e statue rubate. Il mio romanzo non ha epoca storica anche per questo, per la volontà struggente di riabbracciare con le parole e l’immaginazione un passato lontano e lontanissimo come quello del mito.
Come mai hai scelto di raccontare la storia di una prostituta?
Giuro che non mi è venuta in mente mentre scrivevo il romanzo, ma adesso: la Maddalena. Quale amore più grande può esprimere una reietta, l’ultima tra gli ultimi? Anche Gesù l’ha amata. Chi potrebbe provare un amore più grande?
Secondo te esiste per certe donne un destino doloroso che non si può cambiare?
Dipende dal tipo di società, per le donne è più difficile comunque rispetto agli uomini. La società che descrivo io è dura. Ti dicevo del film di Olmi, chi è in grado in quel contesto di cambiare il proprio destino?
E c’è anche la macchia, nel caso della prostituta, il giudizio della gente, e anche per la dragunera. Dragunera è ngiuria, nomignolo che resta appiccicato per la vita e per i figli, per quelli che verranno dopo, è maschera sociale, quella che Pirandello ha raccontato così bene!
Trovi differenze profonde tra il modo di affrontare la vita dei maschi e delle femmine? Nel tuo romanzo sembrerebbe che siano incapaci di comunicare e amarsi oltre la passione sensuale.
Il ruolo sociale anche in questo caso ha un suo peso, ma fino ad un certo punto e solo nel gioco delle parti. Tra don Tano e donna Angelina di fatto è lei quella che spinge gli avvenimenti nella direzione che ha deciso, eppure resta moglie sottomessa che “si fa a carzetta”. Le donne del mio romanzo sono sicuramente più forti degli uomini, direi che c’è il potere del matriarcato a cui la figura stessa della dragunera fa riferimento. Il protagonista maschile è un perdente, non riesce a sostenere il doppio ruolo che si è dato e che la società gli dà: tombeur de femme e capo famiglia. Arriva lo scacco.
Non sono d’accordo su quello che dici sulla passione sensuale che prevale. Paolo non lo sa perché non potrebbe accettarlo ma ama Rosa e anche tra donna Angelina e don Tano c’è un amore forte fatto di complicità e tenerezza
È anche una storia di fratelli e sorelle, ma ancor di più, di doppi. Ti appassiona l’idea di questi personaggi che si riflettono l’uno nell’altro come in un gioco di specchi?
Mi piace il rovesciamento delle situazioni, la parabola di Paolo da fimminaro a impotente, la buttana Rosa che buttana non è.
Tra i temi che tratti nella storia, ci sono emozioni forti, pericolose, ma a te fa più paura l’invidia, la gelosia o la voracità della roba?
A me tutti i sentimenti umani fanno paura e mi fanno soffrire però mi affascinano maledettamente. La roba?, non so, mica so’ Verga io…a parte gli scherzi, la roba penso sia una componente fortissima del nostro essere siciliani; anche il ricordo struggente di Rosa per quella casuzza dell’infanzia. L’oggetto casa è davvero la vita, uno scoglio a cui aggrapparsi nella tempesta della miseria e certo i personaggi che fanno tesoro di un pezzo di stoffa o di un pugno di farina o dei resti di un porco che ha fatto i vermi sono tragicamente reali e hanno nome e cognome in quel mondo che mi è stato restituito nei ricordi di persone che ho amato.
Sono molti anni che leggo tuoi buoni racconti, ma senza dubbio con questo romanzo hai compiuto un innegabile salto di qualità. Senti una responsabilità maggiore mentre scrivi?
Sì, il confronto col primo figlio e l’insicurezza tutte le volte che mi sento disinvolta nella scrittura e allora temo di andare in automatico senza l’urgenza e la forza dell’esordio. Però continuo a darmi forza, la stessa che mi è servita per La Dragunera. Ritorno col pensiero a un libraio di Milano che mi disse: “Scriva, lei continui a scrivere, ma per se stessa, lo faccia per se stessa, al resto non pensi.”