LIBERTÀ, in questi giorni di reclusione scelta e forzata mi chiedo al di là della retorica del silenzio, del ritrovarsi, del ritrovare in solitudine pensieri, immagini, incontri, parole, gesti, mancanze, cosa sia e sia stata per me. Che colori, sapori ha avuto e cosa manca ora.
Quindici giorni di casa, non ricordo in tutta la mia vita da adulta un tempo così lungo di solitudine, di inattività, di fermo. Forse qualche anno fa quando al mare a Gaeta, stanca morta da mesi di lavoro forzato, mi sono stirata via un dito del piede con il portone di casa, per andare a prendere mamma, che mi aspettava sotto il sole e avevo paura si sentisse male. Era sei, sette anni fa e non ero sola.
Siamo state io e lei per più di un mese insieme. Ora vorrei che fosse ancora qui e ancora c’è.
Io immobilizzata, a smadonnare furiosa per vacanze saltate, lei sempre preoccupata di contrastare le mie furie, cercando di non farmi saltare i nervi e provando a coccolarmi in ogni modo. Poi tra una delle sue parmigiane di melanzane e le melanzane a funghetto, spettacolari, ore e ore, lentamente a sbucciare chili di melanzane, con le sue mani già incerte, friggere fettine sottili con la sua fissazione che l’olio di semi fosse più leggero dell’olio d’oliva, comporre piano piano lo strato di melanzane perfette una sull’altra, sugo, fior di latte e poi in forno, tutto sembrava ricomporsi.
Tante parmigiane ho provato ma mai nessuna come la sua, era quella di mamma e lei sapeva come farla. Tutte le altre fritte, al forno, con l’uovo sodo o senza, impanate o no, più o meno buone, più o meno pesanti ma la sua era un misto di gusto forte, potente e al tempo stesso delizioso, leggero, si scioglieva in bocca in un composto perfetto, andava giù con il pane croccante, detesto la mollica, con la bocca impastata di buono:
Me ne dai un altro po’?
È venuta buona, ti è piaciuta? Sono contenta.
Il lavoro è inesorabilmente fermo, i libri sono lì, giacciono dovunque disseminati, attendono di essere presi in mano, sfogliati, che lo sguardo si fermi sulle pagine e proceda riga dopo riga. Ancora non è il tempo della concentrazione, delle storie già scritte.
Notizie scorrono continue, il dolore, l’angoscia, vengono declinati freddamente, numeri che dichiarano una catastrofe fuori controllo, le distanze sembrano siderali, le persone ormai distrattamente evitano di soffermarsi, cercano conforto nella quotidianità ritrovata, in tempi dilatati di relazioni riscoperte o sopportate.
Sono saltati gli schemi, telefonate, wapp, videochiamate, skype, call conference a iosa per ogni stronzata, connessione continua, il sistema non regge, scoppia, vado a fare una passeggiata, mi raccomando da soli, a distanza lecita, con la mascherina, ho voglia di una zeppola di S. Giuseppe, fritta, sia chiaro, è l’unica che merita!
Mi manca il gusto del dolce, del dolcetto riparatore, un bel gelato in queste giornate di sole, una trasgressione continua alle buone norme, cioccolato nero, nocciola e panna, da leccare lentamente, distribuendo la panna con piccoli morsetti ora con il cioccolato, ora con la nocciola, alla fine tutto si mescola e la sensazione dell’amaro- dolce rimane a lungo, ti accompagna tra pensieri di ogni tipo, addolcendo i più amari e rafforzando quelli dolci che dondolano dalla bocca ai gangli per un piacere diffuso.
Libertà di non avere paura dell’altro, di non considerare cosa porta con sé di pericoloso, di non pensare continuamente a come evitare lo sguardo, la parola, l’incontro. Strategie di lontananze, la spesa online non arriva, non c’è possibilità, le sigarette stanno finendo. Vado al bar prendo sigarette, caffè, cornetto, giornale e pane fresco, mi rilasso al sole, non è possibile, sono in casa, amministro le colazioni, variando le combinazioni, cercando di trovare soddisfazioni gustose a ogni inizio giornata. Non è semplice, è sano forse, chissà.
Eppure vorrei ancora una vita insana, saltare su un treno, trovarmi a Napoli, a Milano, a Venezia, sentire parole diverse, idiomi altri, facce amiche ritrovate, temperature diverse, suoni a cui non si faceva più caso: clacson a distesa, lo sciacquio dell’acqua che sbatte sui bastioni, il composto silenzio animato dei milanesi, il gusto di riconoscere sempre qualcosa di unico.
Vorrei ancora quei pranzi arrangiati in ufficio, che restano sempre sullo stomaco, incazzata nera per qualcosa che non va, caffè deca e dolcetti per alleggerire le tensioni solo per un attimo.
Ora mi trovo ad amministrare con sapienza ciò che ho in casa, distribuendo i pranzi con le cene, pensando a come e chi mi porterà la spesa la prossima settimana. Combino gli alimenti, cercando soluzioni creative e gustose, forse riesco anche ma nulla è veramente buono o per lo meno così mi sembra, la tensione è tutta tesa ad amministrare non al godimento. Alcuni prodotti scadono, tocca mangiarli per forza, non si può buttare nulla, bisogna economizzare, economia di guerra. E pensare che dopo due, tre giorni il prosciutto in frigo l’ho sempre buttato via, quell’odore di “ freschino” mi ha sempre disturbato.
Quante litigate con mamma che non buttava mai niente, mangiava tutto fino all’ultimo anche con aspetti e odori improbabili.
Il suo mantra:
– Non si butta nulla, sei pazza, fissata, hai la mangiatoia bassa!
Tu sei pazza, non siamo in guerra, guarda che schifo, poi ti senti male e facciamo i numeri. –
Sei pazza, sei pazza, figlia mia, hai una fissazione!
Incurante di tutto mangiava, mozzarelle avvizzite dai giorni trascorsi, per sicurezza le scioglieva sul fuoco in un padellino, magari con un bell’uovo sopra, roba che mi avrebbe stesa stecchita in un attimo, lei spavaldamente declinava la bontà di quello che aveva salvato e recuperato. In realtà nessun esito catastrofico si palesava e trionfante rincarava la dose sulle mie manie.
Scorrono wapp, videochiamate, alla fine le parole esauriscono la loro portata, quasi c’è poco da dirsi dopo giorni di detenzione.
Come passi il tempo? La giornata è lunga!
Che hai mangiato oggi?
Come ti sei organizzata con la spesa?
Ma dai non è possibile non sei più uscita?
È una situazione tragica, i tempi saranno lunghi, fine aprile, maggio…che dici?
…
Immagini di cibo, arancini, cannoli, sacher… girano furiose in rete, ognuno si abbandona a ricordi di sapori, di voglie oggi impossibili, l’acquolina si presenta spontanea. Un arancino grasso, ripieno, profumato, che scivola giù quasi senza masticare. Un cannolo siciliano pieno di ricotta dolce, forse troppo, la cialda che scrocchia e si mischia con il ripieno, pastoso, la bocca si riempie, trattiene, assapora, gusta.
Voglio tornare ad abboffarmi di insanità, la ciccia, il costume, la dieta, 3 o 4 kg da perdere, attenta la glicemia, il colesterolo, è tutto a posto, camminare, camminare, muoversi… fa bene!