«Iddu non c’è più e io mi sento libero».
Il capitano Baratti non sorrise anche se Baruni, il siciliano, stava cercando di sembrare amichevole.
«Non siamo mai liberi».
Il siciliano si tolse il cappello floscio e lo appoggiò sull’attaccapanni di legno vicino all’entrata dell’ufficio.
«Non se n’esca con queste storie, capitano».
«Non sono storie» disse Baratti, «sono le cose che sappiamo…».
«Iddu non c’è più» l’interruppe Baruni «e Badalanu ancora deve pagare».
Il capitano Baratti odiava essere interrotto. Guardò il cappello che pendeva floscio dall’attaccapanni.
«Sono le cose che sappiamo a impedirci di essere liberi» continuò.
Il siciliano lo fissò e in quello sguardo c’era un lampo che faceva pensare alla morte. A Baratti, che era di Asti, faceva impressione soprattutto che Baruni con lui parlasse italiano, appena con una lieve inflessione dialettale. A parte il fatto che chiamava Iddu l’uomo che li aveva governati tutti prima di morire, per il resto parlava come un avvocato, o perché no?, un generale. Con i giornalisti faceva la scena. Il cappello floscio, la bocca storta, le battute in dialetto: Futti futti ca Diu pirduna a tutti.
«E che? Ognuno sta qui a rivelare e io no?» disse Baruni con il viso che da pallido come era sempre si era fatto livido.
Baratti pensò agli articoli che erano usciti sui giornali dopo la morte di Iddu. La notizia che il Mig libico era stato abbattuto proprio il giorno di Ustica. L’ora della scoperta del cadavere di Moro spostata indietro. Piccole curiosità date in pasto ai fessi che pretendevano di capire troppo.
«Iddu non c’è più e pure io dico quello che so, così Badalanu pagherà, deve schiattare».
La porta dell’ufficio si aprì e un guardiamarina entrò con un vassoio. Baratti lo accolse con un cenno del capo e il ragazzo lasciò una caraffa di caffè freddo e due bicchieri sulla scrivania. Poi fece il saluto militare e uscì.
Baruni scoppiò a ridere. Prese la caraffa e versò due dita di liquido in un bicchiere.
«Non mi vuole mica fare lo scherzo del caffè?» disse il siciliano. «come a Sindona».
Nel suo sguardo si confondevano i lampi della morte e quelli delle risate.
Il capitano Baratti prese un bicchiere e si versò anche lui la bevanda dalla caraffa. Poi guardò Baruni. Fino a ieri l’avevano tenuto sotto controllo a Baruni. Badalanu era protetto dal politico che era appena morto, ma adesso che Iddu era morto… Bevve il caffè. Il siciliano aveva bevuto perché sapeva che anche il capitano l’avrebbe fatto.
«Adesso Badalanu deve pagare» ripeté il siciliano.
Il capitano Baratti ricordava a malapena di cosa si trattava. Un omicidio di almeno trent’anni prima. Era morta la moglie di Baruni o forse era una cognata con la quale però il siciliano ci scopava. E l’aveva uccisa Ercole Badalanu oppure uno dei suoi. Roba vecchia.
«Va bene» disse Baratti senza sorridere, «dica pure quello che sa».
Solo che la vita di Badalanu si era intrecciata con le trame peggiori delle imprese di Iddu. E quelle non potevano certo essere rivelate. Ecco perché Badalanu doveva farla franca e Baruni non poteva parlare.
«Dice che va bene, capitano?» chiese Baruni incredulo. «Davvero posso parlare?».
«Adesso vada per favore».
«Posso dire tutto a tutti? Posso parlare con i giornalisti e posso andare dal magistrato? Lo posso far condannare a quell’infame?».
Baratti fissò il siciliano che aveva cominciato a tremare lievemente. O almeno così sembrava al capitano. Forse per la prima volta in vita sua aveva paura. Forse non aveva mai pensato davvero di parlare. Forse voleva solo chiedere qualcosa in più.
L’uomo si alzò lentamente, si avvicinò all’attaccapanni e riprese il cappello floscio tra le mani.
Forse si stava chiedendo che cosa avrebbero usato per farlo fuori.
«Non sarà il caffè, vero?» chiese.
«Il caffè era ottimo» rispose Baratti e il siciliano uscì dall’ufficio senza una parola.
No, non sarebbe stato il caffè, pensò il capitano. Non è mai quello che ti aspetti.