Sono Serena, mi si legge in faccia, me lo dicono tutti.
I miei mi hanno pure chiamato Serena, più serena di così! Parlo pacatamente, in autobus lascio il posto a quelle decrepite vecchiette che ancora hanno voglia di muoversi. Serenamente sorrido quando il padrone del bar mi ordina di fare gli straordinari.
Poi ci sono i clienti del bar, come non essere serena con loro? Ci sono quelli che ti chiedono il caffè basso in tazza grande con l’acqua calda a parte. Io scaldo loro quella minerale, è più buona, ma se il mio capo mi vede mi rimprovera perché quella che esce dalla macchina del caffè è gratis, anche se è cattiva.
Cosa non farei per i miei clienti! Sempre serenamente sorridente, sempre attenta ai loro gusti che imparo mattina dopo mattina. E che soddisfazione quando quelli che ci frequentano da poco entrano e io mi rivolgo loro dicendo: “Buongiorno, il solito?” E al cliente di turno si illuminano gli occhi e gusta il caffè d’orzo con la treccia alle noci più felice.
Solo uno non mi permette di renderlo felice e questo mi toglie serenità.
E’ un tipo intrigante che viene ogni mattina dal lunedì al venerdì: bello, se piacciono come a me i tipi alla Mick Jagger, un affascinante uomo di mezza età coi capelli brizzolati e un ciuffo ondulato sulla fronte, proprio giusto per una quarantenne come me.
Prende a volte il tè col latte, altre col limone, la settimana dopo vuole caffè con brioche vuota ma dopo un po’ mi chiede cappuccino con sfoglia al riso. Mi fa impazzire, possibile non imparare i suoi gusti? Ma come faccio se li cambia di continuo?
Di rado arriva da solo, spesso è con un trentenne ben vestito (ho capito che lavorano insieme) che prende sempre un cappuccino con brioche alla crema, facile da ricordare. A volte è con la segretaria: estratto di mela, kiwi, zenzero e curcuma più brioche vegana, già catalogata anche lei. Ma a volte entra con persone sconosciute (suoi clienti?) che chiedono cose diverse, difficili da memorizzare. Quando è con loro di solito mi elogia: “Brava la nostra Serena, una barista perfetta!” ma quando siamo soli è scontroso, di poche parole: che sia timido con me? E perché?
Una di queste mattine è arrivato alla sua solita ora e ha chiesto il giornale. “Li trova su uno dei tavoli, in saletta” ho risposto. E’ andato di là ma subito è tornato da me: “Ma non avete la Gazzetta?” “No, mai avuta, abbiamo i soliti quotidiani locali” “Uffa” ha bofonchiato allontanandosi.
“Che posso darle?” ho chiesto sorridente e lui: “Spremuta di arance, grazie”.
Questa è nuova. Vabbè, gliel’ho preparata tagliando col mio coltellone tre arance mature e ho aggiunto una cannuccia nel bicchiere. Lui ha alzato la testa e ha detto: ”E questa cos’è? Non sono mica un bambino!”
Bell’ingratitudine, avrei voluto replicare, ma sono una cameriera educata, io. Ho sorriso serenamente e in silenzio gli ho tolto la cannuccia.
Per fortuna non sono tutti così, i miei clienti, sì lo so che sono solo una dipendente ma io questo bar me lo sento mio. Ci sto otto ore ogni giorno e il mercoledì che sono di festa lo passo a pensare al bar, se Olga, la mia collega, si è ricordata di mettere da parte la sfoglia alla mela per il signor Aldo che arriva tardi, e se starà attenta a pulire bene le vaschette del gelato quando la sera vanno riposte nel frigorifero.
Per non parlare della domenica, giorno di chiusura. La trascorro a immaginare la vita dei miei clienti: dove faranno colazione? A casa, spero. Non glielo chiedo mai per paura delle loro risposte, mi sentirei tradita se mi dicessero che vanno in un altro bar!
Ma per fortuna torna il lunedì, il bar Sole riapre e io accolgo i miei clienti serenamente col migliore dei sorrisi. E loro normalmente rispondono. Solo lui, il mio bello e dannato, a volte mi nega anche un sorriso.
Qualche settimana fa l’ho visto arrivare con la segretaria. La spingeva delicatamente per un braccio. Si sono avvicinati al banco, hanno ordinato a Olga, perché io ne stavo uscendo col vassoio pieno di caffè per servire il tavolo di fronte e da lì ho visto quando la sua mano dal braccio è scesa sul posteriore della ragazza. Lei è avvampata ma non ha detto niente. A me invece è partita la mano in automatico e il vassoio si è trasformato in catapulta per le tazzine di caffè bollente che a razzo sono finite sulla schiena del palpeggiatore.
“Ahi, ma che fai deficiente?”
“Mi scusi, sono inciampata, aspetti che l’asciugo”.
“Ma vattene, mi asciugo da solo. Roba da matti, questa è pazza, non metterò mai più piede in questo bar di merda!”
E’ andato in bagno, la ragazza era tra lo spavento e la risata isterica repressa, ci siamo scambiate uno sguardo d’intesa mentre la mia voce, falsa e bugiarda, diceva: “Mi dispiace, non l’ho fatto apposta…”
Quando è uscito dal bagno se n’è andato via senza tornare al banco dove io avevo già tagliato col mio coltellone la frutta per l’estratto e scaldato la brioche vegana alla segretaria. Anche lei l’ha visto uscire ma subito si è voltata dall’altra parte, ha finito di sorseggiare la bevanda e ha detto: “Torno su. Chissà che mattinata! Eh, ha proprio un caratteraccio”.
Si è avvicinata alla cassa, ha pagato e al mio “Grazie” ha risposto sottovoce: “No, grazie a te!”.
Così da quel momento ho cominciato a pensare intensamente a lui: me lo sono immaginato in ufficio (ho scoperto che è un avvocato con lo studio a pochi metri dal bar) coi tirocinanti che riscuoteranno poco, con la segretaria che farà gli straordinari fino a tardi, e speriamo si tratti solo di lettere e fotocopie, coi clienti che tratterà male se non pagano subito le sue parcelle esose… Il bel tenebroso che avevo visto all’inizio si è trasformato in un maschilista, maleducato, sfruttatore del lavoro altrui, interessato solo a far soldi.
“Ma chi ti credi di essere, deficiente!” gli ho urlato dentro di me.
L’altra mattina ero così presa dal pensiero di lui che ho lasciato in piedi una vecchietta per tutto il tragitto in autobus e la sera dopo ho anche dimenticato di mettere il gelato nel frigo grande e di spegnere la vetrina! Meno male la mattina dopo sono arrivata prima del capo, altrimenti chi lo sente? “Tutto questo spreco, chi lo paga eh?” Me l’avrebbe ripetuto di continuo.
Dovevo fare qualcosa.
E qualcosa ho fatto.
Più sere, all’uscita, mi sono appostata vicino all’ufficio per scoprire i suoi orari. Per questo sono tornata a casa tardi ma tanto, a parte il gatto, nessuno mi aspetta. Non ha un orario fisso, come non ha gusti fissi per la colazione, ma non l’ho mai visto uscire oltre le 9 di sera. E questo è un dato importante. Inoltre è sempre l’ultimo, esce e chiude, sempre da solo.
E stasera l’ho aspettato.
Ero sui gradini esterni del palazzo adibito a uffici contiguo al suo.
In inverno non c’è mai nessuno in giro a quest’ora. Come sempre i suoi dipendenti erano usciti già da un po’, sapevo che ogni momento sarebbe stato quello giusto.
Infatti di lì a poco ho sentito sbattere il pesante portone. Le mie mani erano già alzate, appena mi è stato davanti con tutta la forza ho conficcato il mio coltellone nella sua schiena.
Ho sentito le ossa che si spezzavano e la carne che accoglieva facilmente la lama. Un getto di sangue gli è uscito dalla bocca mentre si è voltato verso di me con sguardo incredulo. E’ scivolato a terra provando a gridare, ma pian piano la sua voce è diventata un lamento, sempre più debole.
Io non ho parlato, gli ho solo sorriso. Serenamente.
Ho ripreso il coltellone che mi serve domattina per gli estratti e sono andata verso la piazza. Gli autobus non c’erano più, ho chiamato un taxi e mi sono fatta portare a casa.
Non credo possano risalire a me, ma non importa. Ovunque sarò, nel bar, a casa o in carcere continuerò a sorridere serenamente.
Sono nata per accontentare gli altri, per dar loro serenità, altrimenti non mi avrebbero chiamato Serena.