De Amicis e Garibaldi

Si narra di quella volta in cui Edmondo De Amicis, di anni 13, scappò dalla finestra per unirsi ai Mille di Garibaldi

Si è ficcato nel letto coi calzoni e la camicia addosso, le coperte arrivano fino al mento e pesano, sente caldo, gli pare di non poter respirare. La pioggia è cessata, il temporale è lontano, si ode soltanto lo stormire degli alberi. Il tredicenne Edmondo De Amicis fissa il buio con gli occhi spalancati, si mette in ascolto: il silenzio è profondo, tutti dormono. Ha preparato e nascosto sotto il letto un involto con biancheria e camicie. A cena si è sforzato di non far trapelare l’agitazione, ma il cuore ora batte forte. Ha scritto a lume di candela la lettera di addio ai genitori, dopo che l’ufficiale che presiede il locale comitato di arruolamento dei volontari ha iscritto lui e i suoi due compagni di scuola, garibaldini in erba, nelle truppe in partenza all’alba. Inseguono il loro sogno all’insaputa dei genitori: correre da Garibaldi in Sicilia. 
Le scuole sono in fermento, i professori dalle cattedre inneggiano ai Mille. Non si studia più, si finisce di parlare solo di Garibaldi e delle sue imprese. L’orologio del municipio batte finalmente le tre. Balza dal letto, è l’ora. Ha appeso alla ringhiera del terrazzino la corda, non sarà difficile calarsi nel cortile e raggiungere gli altri due nel luogo di ritrovo stabilito, la piazza del mercato del vino. Si muove a tentoni nel buio più fitto, quando si trova di fronte la madre con la candela in mano. L’ufficiale li ha traditi, ha avvertito i genitori. Lo consola spiegandogli che Garibaldi stesso avrebbe approvato i genitori che impediscono a dei ragazzi di andare a morire. Così Edmondo De Amicis, secondo la sua espressione, si sente “un Garibaldino fallito”.
Tre anni dopo nel 1863 sostiene l’esame di ammissione alla scuola militare nella sede di Asti e scrive una poesia dedicata al generale Pettinengo, presidente di commissione. Si vede subito affibbiato un nomignolo: il Poeta. Scriverà di quegli anni: “c’era nell’aria un’allegria carnevalesca: speravano tutti di diventare colonnelli a trent’anni. Pochi studiavano. Ma ce n’era bisogno? La frase consacrata era: dare il sangue alla patria, non si diceva mica: il cervello, e di sangue tutti n’avevan d’avanzo”. 

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