“Non hai bisogno di fare questo”
“E tu cosa ne sai di cosa ho bisogno?” dico avanzando verso le scale con passi che suonano un ritmo stonato e duro sul terreno. Oggi la gamba mi fa più male del solito, ogni passo è una lenta agonia. Zoppico verso il primo scalino sempre con la schiena dritta e a testa alta. Almeno le bastonate di nostro padre sono servite a rendermi dritta anche se storpia.
“Caterina, ti prego”
Eccolo il mio fratellino, inginocchiato e implorante al centro del patibolo, accanto a lui il ceppo dell’esecuzione e la mannaia. Ha le braccia e le caviglie legate da un corda, indossa una camicia bianca aperta e sgualcita. Che strano vederlo senza parrucca, con i suoi capelli unti, aderenti alla testa, da qui è quasi irriconoscibile.
“Ti prego” ripeto, alzando il tono della voce e toccando note acute che infastidiscono perfino le mie orecchie. Alzo la testa verso il cielo e rido premendo con la mano destra sull’ampia gonna per comprimere il dolore della gamba. Oggi questa gonna mi sembra più pesante del solito.
“Non farlo, puoi avere quello che vuoi senza arrivare a questo”
“Dio che noia che sei, sei sempre stato lagnoso!” aggiungo dimenticandomi della mia risata e diventando seria e cupa.
Appoggio la mano sulla balaustra di legno alla mia sinistra, mi tiro su sul primo gradino, faccio cadere tutto il mio peso sul piede sinistro e faticosamente tiro su diagonalmente anche la gamba destra.
Il corpetto mi stringe e lo sforzo, in questo giorno di un insolito caldo autunno, mi rende accaldata. Faccio slittare la mano un po’ più su e ripeto faticosamente le stesse movenze.
Il mio piede destro fa sempre un rumore diverso da quello sinistro e oggi sembra sia un rumore più sordo e secco.
“Ti lascio il posto, ti lascio tutto”
A quelle parole il mio pugno si stringe più forte sul corrimano.
“Tu non mi lasci proprio niente, quello che mi prendo è sempre stato mio”. “Si, ti lascio quello che è tuo”
Annuisco mentre salgo il terzo gradino. Il caldo sembra farsi più intenso. Infilo le dita nella gorgièra cercando di allontanarla dal collo come per avere più aria. Faccio un respiro profondo e continuo lenta la mia scalata.
“Non l’ho scelto io” dice con voce tremante.
“Non ho voluto io tutto questo” continua con un tono di supplica.
Conquisto il quarto gradino e poi il quinto. Sento il sudore scendere giù lungo la schiena. Salgo sulla piattaforma e lui è di fronte a me, così inginocchiato sembra più piccolo che mai.
È scalzo, non indossa neanche i tacchi. Eccolo qui, il Re, il mio fratellino.
“Caterina, io-io non ho ma-mai voluto essere Re e tu lo sai” balbetta il mio fratellino. Avanzo verso di lui e mi fermo a pochi passi di distanza.
“È stato papà, lo sai. Io non ho mai voluto essere Re”.
Osservo le sue labbra tremare e una lacrima scendere giù dal suo occhio destro, ora mi sembra di nuovo bambino. Il mio fratellino, piccolo, gracilino, il mio fratellino poeta, che amava leggere libri e aveva timore di ogni cosa.
Povero il mio fratellino, vittima delle angherie di tutti, preso in giro anche dalla servitù. Oggi Il mio fratellino, così in ginocchio, senza tacchi e senza parrucca mi sembra un uccellino caduto dal nido.
Una lacrima dopo l’altra scorre sulla sua guancia non più paffuta. Mi avvicino e allungo una mano, le mie dita sfiorano le sue lacrime che ora scendono sempre più copiose a creare una piccola pozzanghera sulle tavole di legno. Il mio dito indice disegna sul suo volto il percorso di quelle lacrime. Toc, Toc fanno le lacrime che colpiscono le tavole imbarcate dalla pioggia e dal sole.
Alzo la mano di fronte a me e rimango a guardare il luccichio del suo pianto sulle mie dita. “Caterina… ti prego”
Quel ti prego ha una piega così disperata che mi richiama dai miei pensieri. “Ti prego, ti prego” sbiascica tra singhiozzi e suoni incomprensibili.
Ora non scendono solo le lacrime ma anche il muco sopra la sua bocca. Lo guardo e non vedo un Re. Non c’è un Re di fronte a me, ma un moccioso che frigna.
Faccio un passo indietro e lui si butta in avanti come per raggiungere con la sua bocca le mie scarpe per baciarle. Si contorce sulle tavole come un serpente a cui hanno tagliato la testa.
Le sue parole non hanno più un suono comprensibile. Gemiti e urla soffocate riempiono il vuoto dell’assenza di pubblico.
Alla sua destra c’è il blocco di legno inciso da tagli e sporco di sangue. Contro di esso è appoggiata la mannaia. Gli giro intorno, mi piego su di lui e lo afferro dalla camicia. Lo strattono facendolo strisciare per terra.
Il Re ha smesso di contorcersi e urlare, trovandosi di fronte al ceppo di legno rimane impietrito. “Alzati!” dico tirandolo su per la camicia come un burattino.
Premendo una mano tra le sue scapole lo faccio piegare in avanti sul ceppo. Con l’altra mano sulla testa gli comprimo la guancia sinistra sul legno intriso di sangue vecchio e lacrime.
“Ti prego” sussurra lui senza più fiato.
Uno stormo di corvi reali vola gracchiando sopra di noi. Una goccia di sudore scivola lenta dalla mia tempia lateralmente lungo la guancia e giù per il collo.
Cerco di infilare la mano tra il collo e la gorgièra per grattarmi, questo caldo e il sudore mi danno prurito e questo ridicolo collare mi sembra mi strozzi.
Cade un mesto silenzio, il Re non piange più.
Afferro la mannaia, impugno il manico con entrambe le mani, il pugno sinistro chiuso appena sopra il pugno destro.
Una pozza si allarga intorno alle sue ginocchia, Il Re trema in una pozza di piscio.
Sollevo l’arma a pochi centimetri da terra e la faccio oscillare leggermente per darle forza e direzione. Avanti e indietro.
Il silenzio è ora più sordo e il caldo sembra farsi più umido.
La vista agli angoli dei miei occhi si appanna, eppure lo vedo, improvvisamente vedo mio padre contorcere il suo viso furioso di fronte a noi. Lo vedo mentre impugna lo scettro, l’ennesimo scettro fatto apposta per lui.
“Sei una troia, ecco cosa sei. Non sei mai stata una Regina e non lo sarai mai!” grida furioso mio padre. Agita lo scettro di fronte il viso di mia madre.
Chissà come si romperà questa volta questo scettro, pensai, chissà se si spezzerà sul manico o sulla testa. Chissà se l’oro si sbeccherà o se le pietre si scheggeranno e voleranno in aria.
Mio padre alza il bastone del suo potere e colpisce insistentemente mia madre che cade per terra nel suo stesso sangue.
Tra me e l’ira di mio padre non c’è più nessuno, mio fratello si è nascosto dietro il trono e io rimango dritta da sola e guardo di fronte a me cercando di reprimere l’istinto di portare le braccia in alto per coprire la testa. Vorrei accucciarmi e appallottolarmi lì sul pavimento accanto a mia madre, ma resto dritta di fronte a mio padre come una piccola sovrana di dieci anni.
Con lo stesso portamento di allora faccio oscillare un’ultima volta la mannaia, avanti e indietro. Avanti e indietro.
In quel momento guardo il mio fratellino accasciato sul ceppo, sembra quello stesso bambino dietro il trono con gli occhi sgranati.
Con impeto faccio ruotare la mannaia dietro di me e le faccio raggiungere il punto più alto.
Fisso il collo del mio fratellino e penso che un Re che si nasconde dietro un trono non è un vero Re e la faccio cadere giù con forza. E poi ancora e ancora.
“Tu non sei una Regina e come tua madre non sarai mai una Regina!” grida mio padre brandendo il suo scettro di rubini sopra di me. E poi giù, lo fa cadere giù più volte con forza.
Toc, Toc, si staccano i rubini e ruzzolano sul pavimento.
Toc, Toc, la testa del Re cade e rotola sulle tavole a bocca aperta. Toc, Toc gocciola il sangue in una pozzanghera.
Toc, Toc fanno i mie passi sordi mentre mi allontano. Toc, Toc fa la gorgièra che lascio cadere per terra.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.