Mi pare di vederlo, nell’imponente biblioteca, pallido e ingobbito. È seduto di fronte al padre, il conte Monaldo intento ad annotare sul brogliaccio i suoi affari, conti e spese, fedele all’antica tradizione di famiglia. Con aria solenne, il padre gli accorda il permesso di unirsi ai parenti della madre Adelaide che sono in procinto di partire per Roma. Non credo che Giacomo Leopardi ne gioisca particolarmente, non ha dalla sua lo slancio della giovinezza. Spera nella forza rigenerante del viaggio, ha vissuto per troppo tempo nel “natio borgo selvaggio”, chino sui libri, isolato dal mondo, assorbito da un’incontenibile smania di erudizione.
A Roma tiene un fitto carteggio con il fratello Carlo, suo confidente fin dalla fanciullezza, che mette in luce freschezza e ricchezza d’espressioni. Freme per l’incontro con le donne che sciamano per le vie del centro e per il desiderio di abbandonarsi all’amore. Si esprime con un trasporto quasi adolescenziale e con il linguaggio immediato della quotidianità: “Veramente non so quale occupazione migliore si possa trovare al mondo se non quella di far l’amore sia di primavera che d’autunno… è certo che parlare con una bella ragazza vale dieci volte di più che girare attorno come fò all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina”.
L’impatto con la grande città, piuttosto chiusa verso la cultura laica, è però frustrante. Gli appare respingente, corrosa da una decadenza irreversibile. Le visite organizzate dal padre a personalità o a conoscenti gli lasciano la netta sensazione di una mediocrità a cui non può rassegnarsi: “Ieri fui dal Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra”.
Il viaggio a Roma, troppo mondana e indifferente, finisce solo per amplificare il suo malessere. Ricade nel pessimismo col peso della realtà di ogni giorno: “Io vivo qui molto indifferentemente, non tratto donne; e senza queste nessuna occupazione o circostanza della nostra vita ha diritto di affezionarci o di compiacerci. Io me n’assicuro per esperienza, e posso giurarti che la conversazione o spiritosa o senza spirito m’è venuta in un odio mortale. Tutto è secco fuori del nostro cuore: e questo non si esercita mai: vada al diavolo la società. Addio, Carluccio. Salutami tutti.”
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.