L’Italia non è terra di romanzi e la diffusione popolare della scrittura romanzesca che vediamo oggi è probabilmente una moda importata dall’estero, come gli influencer e il couscous. La letteratura statunitense è sempre alla ricerca di chi scriverà il prossimo Grande Romanzo Americano, i francesi polemizzano e si scandalizzano tra loro scrivendo romanzi. E poi ci sono bei romanzi sudamericani, spagnoli, israeliani, giapponesi, egiziani, ecc. Gli italiani invece sono scarsi e anche corti, un poco stitici.
Si dice che ognuno di noi abbia un libro nel cassetto e molti lo hanno già pubblicato, ma romanzieri ce ne sono stati sempre pochi. Non è certo un caso se tra gli italiani premi Nobel per la letteratura – a parte Grazia Deledda – troviamo poeti e drammaturghi, non romanzieri: Quasimodo, Montale, Pirandello, Fo…
Non ce ne furono molti nell’Ottocento. E anche nel Novecento sono stati pochi e tutto sommato interessati ad altro: sperimentazioni linguistiche, reportage narrativi, affreschi sociali, opere di denuncia politica, autobiografie romanzate. Il Duemila continua più o meno allo stesso modo. Anche se a sostenere la nostra fame romanzesca di lettori ci sono i gialli e i noir, anch’essi calchi da opere straniere, pure se talvolta ben fatti. Alcuni nostri critici letterari dicono che il romanzo è morto. Bella forza, non è mai nato!
Da che dipende? Le risposte possono essere molte e di molte specie. C’è chi pensa che dipenda dal clima. Poiché da noi è bello, mentre in altri paesi è brutto, e poiché per scrivere romanzi bisogna restare a lungo chiusi dentro casa, a un certo punto l’italiano si stufa e va al mare, mentre l’inglese – per dire – con pioggia e freddo sta nel suo cottage e scrive storie lunghe. Una spiegazione buffa che non spiega perché ci siano tanti bei romanzi scritti addirittura in Sud America o in Medio Oriente…, io ne aggiungo un’altra, mia, che vale quel che vale.
È tutta colpa dei santini.
Sì, i santini. Quei foglietti che portano sul dritto un’immagine sacra e sul retro una breve preghiera.
I protestanti, gli ebrei, gli islamici sono abituati a leggere e rileggere i loro libri sacri zeppi di storie (tipo quella Del Re David che manda in guerra in prima linea il suo generale sposato con una donna di cui è innamorato, roba da romanzo meglio di Gomorra), i sudamericani hanno anche i miti originari (che ritrovi dentro i loro cent’anni di solitudine affollata), e via così. Invece da noi la Bibbia non si legge e l’autorità del Papa conta più di quello che sta scritto nel Vangelo.
Insomma nei cassetti dei comodini degli alberghi all’estero trovi un libro sacro, da noi la lista della colazione in camera. E la nostra produzione letteraria discende da San Francesco, passa per Dante e arriva ai santini. Se leggi i santini invece del Deuteronomio, difficile che poi scrivi Moby Dick, al massimo t’illumini d’immenso.
L’unica forma letteraria in cui noi italiani saremmo forti, a parte le poesie e il teatro, è quella dei racconti, perché magari qualche parabola a messa l’abbiamo ascoltata. Ma poiché – dal grandissimo Boccaccio all’enigmatico Pirandello giù giù al passionale Verga fino a Calvino a Landolfi, Buzzati e al mio amico Luigi Annibaldi – sono pieni di sorprese, fantasie surreali, stravaganze, bizzarrie, i racconti vengono visti con sospetto dalle tante chiese che si ergono a difesa del bene pubblico per nascondere i vizi privati.
Mi dite che credo troppo all’influsso delle Religioni sulla cultura? Può essere, ma sempre meglio del clima, no?