Intervista metafisica a Paolo Ercolani

La seconda intervista metafisica di Ilaria Palomba è rivolta al filosofo antagonista Paolo Ercolani

La seconda intervista metafisica è rivolta a Paolo Ercolani (Roma 1972): filosofo antagonista, insegna filosofia all’Università di Urbino «Carlo Bo». È ospite di varie trasmissioni televisive sulla Rai e su La 7. Scrive per diverse testate, fra cui «L’Espresso» e «il Manifesto», e ha collaborato a «MicroMega» e a «La Lettura» del «Corriere della sera». Cura il blog «L’urto del pensiero» su «L’Espresso», collabora con rai Educational Filosofia ed è autore di svariati libri e articoli scientifici pubblicati in italiano, inglese e tedesco. Fra i quali «La Storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche» (Napoli 2011); «L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana», prefazione di Umberto Galimberti, (Bari 2012); «The West Removed. Economics, Democracy, Freedom: A Counter-History of Our Civilization», prefazione di Santiago Zabala (London – New York 2016); «Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio» (Venezia 2016, vincitore del Premio Nazionale Com&Te). A marzo del 2019 è uscito il suo ultimo lavoro: «Figli di un Io minore. Dalla società aperta alla società ottusa», con la prefazione di Luciano Canfora (Venezia 2019).

1 – Cos’è per te l’esistenza?
È l’ineffabile chiasmo del nostro «esserci», ossia il punto indefinibile in cui la galassia delle cose entra in interazione col nostro mondo del pensiero e delle idee. Quel momento, di durata variabile ma comunque transeunte e finito, in cui i due legnetti si sfregano e si genera quella scintilla che chiamiamo vita. Quando essa finisce, il mondo delle cose torna al suo semplice statuto di oggetto, mentre noi, qualunque cosa accada dopo, torniamo a essere semplice pensiero, magari soltanto sotto forma di ricordo che abbiamo lasciato nelle persone che sono entrate in relazione con la nostra vita.

2 – L’identità?
È un «piccolo» bluff, in confronto a quello più grande che è la vita, il frutto del nostro volerci aggrappare a confini certi e modalità definite. Nessuno di noi è, o possiede, un’identità stabilita e immodificabile. Siamo autori in cerca di personaggi, e in genere indossiamo una maschera per ogni situazione diversa che ci troviamo a vivere. Finché pensiamo di essere i registi della nostra piccola o grande rappresentazione, beneficiamo di un equilibrio instabile. Poi, in forme e con tempi imponderabili, compare il demone nascosto di «follia», e lì ci ritroviamo a deragliare rispetto ai binari di quella che credevamo essere la nostra identità. A quel punto facciamo i conti con la crisi, che a seconda dei casi può portarci a uno sconvolgimento totale, o semplicemente al dover fare i conti con un’altra nostra identità che non avremmo pensato di poter sperimentare.

3 – Il bene e il male?
Parafrasando Pascal, si potrebbe dire che sono i grandi estremi di una terra misteriosa e sconfinata. In genere abitiamo ben distanti da questi confini, in quella terra di qualcuno che si staglia fra l’idea del bene che ci portiamo dentro come ideale e la realtà del male che abita in noi a mo’ di ospite inquietante. Per dirla in altri termini, sono due concetti assoluti che, nella loro diversità, ci svelano il comune denominatore della nostra esistenza: il relativismo in cui siamo gettati soffrendo la continua oscillazione fra ciò che pensiamo essere bene e il male che inevitabilmente produciamo.

4 – Lo spazio e il tempo?
Sono due confini anch’essi. Che però non marcano il terreno sconfinato della vita, ma soltanto le possibilità limitate del nostro esistere. Se non avessimo tempi e spazi ontologicamente definiti, la nostra esistenza sarebbe soltanto un caotico e continuo naufragare nel mare dell’indeterminatezza. Un naufragare tutt’altro che dolce.

5 – La morte?
Per quel che ne sappiamo è il nome che diamo alla fine del «grande» bluff. San Paolo diceva che è l’«ultimo nemico» dell’uomo, poiché se la nostra vita è già essa stessa costellata di frammenti di morte, quello è il frammento definitivo. L’ultimo tassello di un puzzle di cui ci manca costantemente la visione d’insieme. Anche una volta terminato, proprio perché con quel termine finiamo anche noi, il disegno compiuto del puzzle non si presenta ai nostri occhi. La poesia e l’arte in genere, quando sono grandi, riescono a mostrarcene una parte. L’intero si sottrae costantemente al nostro sguardo, poiché essendo parti di quel tutto, non possiamo aspirare a vederlo. Forse a pensarlo, ma con il rischio, per chi riesce a superare un certo limite, di piombare in quella follia che rappresenta il lato in ombra della nostra essenza.

6 – La Storia?
Per dirla con Hegel, è il grande e implacabile tribunale in cui trovano l’inevitabile condanna tutte le aspirazioni, gli ideali e le presunzioni di quell’essere sommamente, e inutilmente, narcisista che è l’uomo. Se non ci fosse la storia, potremmo perfino illuderci di essere degli dèi. Quando in realtà siamo soltanto patetici e meravigliosi ingranaggi di un meccanismo che vogliamo illuderci esistere per noi. Quando invece è vero il contrario.

7 – Il presente?
È la dimensione più inesistente e paradossale della nostra esistenza. Lo viviamo costantemente senza poterlo mai gustare appieno, poiché quando ci fermiamo a pensarlo, esso già non c’è più. Il nostro vivere è la costante memoria di un passato e l’affannosa aspirazione di un futuro. Due entità che non esistono più o non esistono ancora. Questo dovrebbe dirla molto lunga anche sulla pia illusione del nostro esistere come identità. La nostra vera essenza è quella del non esistente, ma chi ha davvero consapevolizzato questa tragica realtà, spesso ha preferito smettere anche di vivere.

8 – Il corpo?
È la straordinaria e al tempo stesso fragile macchina che ad alcuni fa credere che siamo parte di un qualcosa di più grande e nobile, ad altri che siamo soltanto l’ingranaggio di un meccanismo a cui in qualche modo serviamo. Per quanto mi concerne, mi limito a pensare che è l’anello di contatto fra noi e le altre cose e persone del mondo. Invecchia, degenera, perisce come ogni cosa della vita. Solo che a differenze di queste altre, ci porta via con lui.

9 – La mente?
Si tratta della nostra facoltà al tempo stesso più nobile e tragica. Nobile perché ci spinge verso altezze che superano di molto la nostra condizione fisiologica. Tragica perché, se ben usata, ci rivela che abbiamo troppo poco a che spartire con tali altezze.

10 – Lo spirito?
Citando da un film che preferisco non svelare, restando in qualche modo «metafisico» come questa intervista, direi che è la parte più stanca del corpo.

11 – La materia?
È quella porzione di esistenza che si forma, cresce e poi muore senza farsene un problema come invece accade per noi, che invece abbiamo lo spirito. Esso consapevolizza e si angoscia, e per questo è la parte più stanca di quella materia personale che è il nostro corpo.

12 – Il vuoto?
Si tratta della cognizione, spesso inconsapevole, che ciò che c’è stato prima di noi e ciò che presumibilmente verrà dopo, è cosa talmente grande da rendere piccola ogni nostra impresa compiuta nel breve spazio e tempo della vita. In questo senso, ricordando Gadda, è una vera e propria cognizione del dolore.

13 – Lo sguardo?
Nietzsche scriveva che «i laghi sono gli occhi delle montagne». Lo sguardo, in questo senso, è la grande montagna che si nasconde dietro al topolino della maschera che di volta in volta indossiamo.

14 – Il mondo?
È il tutto in cui abitiamo.

15 – Il cosmo?
È il nulla che abita in noi.

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Ilaria Palomba

Ha studiato Filosofia a Bari e fatto ricerca per un anno in Sociologia dell'immaginario al CeaQ (Sorbonne, Paris). Ha poi conseguito un master in Filosofia e Psicoanalisi all'Istituto di Filosofia e Psicoanalisi di Roma. Ha lavorato come docente in alcune scuole di scrittura creativa e scuole medie e tenuto corsi come operatrice letteraria in vari centri diurni di psichiatria. Ha frequentato un corso di editing alla Scuola Omero e il corso principe per redattori editoriali da Oblique Studio. Ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi, 2012; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015; Premio Carver 2015), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018; da cui lo spettacolo teatrale Disturbi, con regia di Olivia Balzar, andato in scena all'Ivelise di Roma nel novembre 2019), Brama (Perrone, 2020); le sillogi: Mancanza, Deserto (Premio Profumi di poesia 2018) e Città metafisiche (Ensemble, 2020); il saggio Io Sono un'opera d'arte, viaggio nel mondo della performance art (Edizioni Dal Sud, 2018). Alcuni suoi racconti sono pubblicati in francese, tedesco e inglese, in Les Cahiers européens de l'imaginaire e Mammoth Book. Un suo racconto è stato pubblicato su Retabloid di Oblique, uno nell'antologia Il mestiere più antico del mondo? (Elliot), e un altro nell'antologia L'ultimo sesso al tempo della peste (Neo). Alcune poesie tratte da Mancanza e Città metafisiche sono in Nuovi Argomenti. Dal 2010 (tesi di laurea sul narcisismo collettivo) conduce una ricerca sul tema del disagio (psichico, sociale, generazionale), ha aperto un blog dove ha svolto un'indagine sul dolore dell'anima mediante interviste a persone che anonimamente le hanno raccontato la propria esperienza di disagio. Ha scritto per Minima et Moralia, Pangea, Nuovi Argomenti e fondato il blog letterario Suite italiana. Ha scritto e pubblicato in rete la distopia sul metaverso Terrafelice, tradotta in bosniaco da Erman Jakupi.

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