Un gelato che si consuma è una vita che perde lo smalto della gioventù, si fonde, si accartoccia e scompare nel buio dell’ignoto.
Per finire dove? L’isola dei morti di Arnold Böcklin, quadro di fine ‘800 creato in cinque differenti versioni, non offre una risposta ma permette di evocare stati d’animo tali da lasciare l’osservatore immerso in umori antichi, al confine tra paura e curiosità.
Un bimbo davanti a una vetrina di gelati tra gusti sconosciuti, il cuore che batte incerto eppure sicuro di essere destinato a emozioni più grandi di lui. Curioso, non potrà cogliere il senso di alcuna pulsione se non nel momento in cui la lingua inconsapevole sfiorerà il gelo del freddo gelato sul cono.
E torniamo bambini davanti all’opera di Böcklin, evochiamo il nostro personale concetto di silenzio per immaginare la morte sconosciuta, increduli dell’arrivo un giorno del nostro turno.
Come sarà? Come sarà quel gusto lì? Che sapore ha la fragola? La morte invece? Che odori sentiremo mentre su una piccola barca saremo traghettati verso l’ignoto?
Come il bambino vorrebbe avere la certezza della bontà del gusto che sceglierà, gli esseri umani desiderano conoscere ciò che gli spetta dopo la vita, ma questo non è permesso se non il giorno della fine.
E così un giovane Caronte porge al piccolo avventore la possibilità di assaggiare il suo primo gelato, non sapremo mai cosa sentirà il bambino, quali emozioni percepirà, perché come dico sempre, il gusto è un’esperienza personale. Nessuno può interferire.
Moriamo un po’ ogni volta che desideriamo qualcosa per poi ottenerla, l’isola dei morti è l’esatto limbo che ci pone davanti al riflesso della morte che portiamo dentro di noi, nella vita che giunta alla fine ci sembra essere stata più breve di un gelato che si scioglie.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.