Sabato Santo, sabato di silenzio. La Tocca del Venerdì aveva richiamato al rispetto del lutto e il paese, obbediente, aveva eclissato suoni, canzoni, risate e schiamazzi.
Le donne avevano acceso i forni e, in gruppi, preparavano dolci per festeggiare la Resurrezione.
Solo i bambini erano stati dispensati dal raccoglimento e dal digiuno e, sparsi sulla strada, giocavano e litigavano in libertà, sotto un cielo cinereo per il vento di scirocco che portava le polveri dell’Etna.
La corriera al terzo ponte annunciò col clacson, come ogni giorno, che erano quasi le tre e che stava arrivando. D’istinto i bambini si misero da un lato per lasciare libera la strada; il vecchio autobus si fermò in mezzo alla piazza e lasciò che la gente scendesse.
Anche l’autista scese per riconsegnare i bagagli e per una volta, invece di risalire subito, restò in piedi davanti allo sportellone.
I bambini si erano quietati e guardavano i paesani che rimanevano immobili e silenziosi, come dal fotografo, con le loro cose in mano, incuranti del tempo sottratto agli impegni domestici.
Poi dalla corriera scese un uomo di età indecifrabile, a prima vista sembrava molto vecchio.
Ricurvo su se stesso, vestiva un cappotto che gli arrivava fin quasi ai piedi mentre in testa portava un cappello con il paraorecchie, una specie di colbacco, che stonava con quel tempo e quel luogo.
Avanzò fino all’autista e gli chiese qualcosa; l’autista rispose con un cenno del capo indicando un portone.
Cosetta, che aveva seguito in silenzio e col fiato sospeso, come tutti, quando capì che il vecchio si stava dirigendo verso casa sua, schizzò come una lepre e gli si parò davanti.
“Buongiorno, chi cercate?”
Il vecchio alzò la testa e la guardò negli occhi.
“Sono Alberto, il cugino di Antonietta Torchia, mi hanno detto che qui abita la figlia”.
Gli occhi dell’uomo erano limpidi e la bocca si allargò in un sorriso che lasciava intravedere solo la lingua.
Cosetta notò che da una delle enormi tasche del pastrano faceva capolino la testa di un uccello, che si muoveva in tutte le direzioni, come se stesse cercando qualcosa, era nera come il carbone, ma non era un corvo.
Le parole le uscirono di bocca d’un fiato:
“Ah, ma sei zio Alberto! sì, vieni, ti accompagno io”.
Oltrepassato il portone si incamminarono verso le scale, e la bambina si fermava, ogni tanto, ad aspettare il vecchio e ogni volta girava la testa per controllare con la coda dell’occhio quell’uccello di una specie che dalle sue parti non s’era mai vista e che, immobile nella sua postazione dentro la tasca, sembrava facesse da vedetta.
Varcata la porta del piano di sopra, Zio Alberto si fermò e si guardò intorno: la vecchia abitazione era un groviglio di stanze, corridoi, balconcini e gradini e, più che di una casa, dava l’idea di una piccionaia.
“Mamma, corri, è arrivato zio Alberto!” gridò Cosetta con quanto fiato aveva in gola.
L’uccello allora, spaventato dall’urlo, uscì dalla tasca, saltò sulla spalla del vecchio ed emise un suono stridente, come di un ferro che gratta su una lamiera. La testa contrastava con il bianco candido delle ali e il piumaggio, alla luce del giorno, aveva riflessi azzurrini.
Se ne stava aggrappato a un palmo dal collo e Cosetta si accorse che, proprio lì, sul collo, dalla parte del cuore, Alberto aveva un disegno sulla pelle, una strana stella con tante punte.
“Dai, vieni, siamo arrivati!” lo esortò sorridendo, e gli prese la mano.
Il vecchio le sussurrò : “ È proprio vero, piccirì, buon sangue non mente!” si tolse delicatamente l’uccello dalla spalla e lo rimise nel tascone del cappotto.