Mi lega a Ilaria Palomba (che vedete qui sopra in una fotografia di Dino Ignani) un’amicizia leale e sincera di lungo corso, ma questo non sarebbe materiale di conversazioni letterarie. Da diverso tempo, però, seguo la sua attività di autrice, cosa che anche i lettori di questi miei colloqui con gli autori forse ricordano. Un bel po’ di anni sono passati dal suo primo romanzo, Fatti male (Gaffi), e nel frattempo Palomba ha scritto molte opere di tipo diverso: altri romanzi come Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate con Luigi Annibaldi (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); oltre alle sillogi: Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble, premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022); e anche il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Inoltre ha approfondito lo studio della filosofia, facendone un cardine dei suoi testi.
Ho sempre pensato che la sua attività di autrice fosse in qualche modo un sistema unico intrecciato di narrazioni, poesia, pensiero filosofico, abbandoni, razionalità, passioni, espressioni artistiche ed esperienze autobiografiche. Torna ora con un poemetto, Scisma (Les Flâneurs 2024), che sarà in libreria dal primo settembre e che ho letto in bozze con qualche pudore, perché arriva dopo un tentativo di suicidio che l’autrice non nasconde di certo, anzi racconta facendone una sorta di opera personale ma anche corale e perfino, negli intenti, collettiva. Il che in un certo senso mi libera come lettore proprio dal pudore dell’esperienza personale. Quel giorno – quando cominciarono ad arrivare i messaggi di altre persone a me molto care che raccontavano il dramma di quello che era successo, anzi che stava accadendo in quei momenti – non pensavo davvero di poter cominciare un’altra delle nostre conversazioni con una frase del tipo: Ilaria, così non sei morta…
Così non sei morta. Questa raccolta di scritti parte nella mia mente di lettore da questa considerazione bellissima e terribile. Le tue sono le parole di qualcuno che si è spinto oltre ed è ritornato?
Così, dobbiamo fare i conti con le frane, le rovine di una vita. Non mi sarebbe dispiaciuto andarmene, anche se non ho risolto il quesito, se esista o meno un aldilà. Quando ero ricoverata in rianimazione vedevo esseri mostruosi, sentivo la loro voce minacciosa, ma forse erano gli effetti della morfina. Qualcosa resta dall’altra parte, non si torna per intero. Le mie parole sono quel che resta, ma non esattamente un resoconto allucinatorio del viaggio, quanto un tentativo di strutturare la visione, l’allucinazione, di darle una forma, che sia prosa lirica o poesia.
Come nascono queste parole? Si tratta di un vero e proprio diario scritto mentre le cose accadevano?
No, l’idea dei giorni mi è venuta dopo, infatti quelli non sono giorni reali, molte di quelle poesie sono state scritte fuori. La struttura è stata creata dopo, ispirata a quella de L’uomo che pende di Thierry Metz (un potentissimo diario poetico dei giorni in cui fu ricoverato in una clinica per disintossicarsi dall’alcol). Esiste un diario ospedaliero che condividevo ogni giorno con le fotografie del mio volto, qualcuno mi diceva fossi bellissima in quelle condizioni, ovviamente mentiva. Delle poesie scritte in ospedale in Scisma ne ho lasciate solo cinque. Non tutto ciò che emerge spontaneamente dai momenti di crisi è degno di essere chiamato arte. Molte di quelle cose scritte al CTO erano solo sfoghi. È stato fondamentale invece tornarci dopo e dare al poema una forma che andasse un po’ oltre l’emersione spontanea dei vissuti. Tanto per segnare il confine tra opera e persona.
Lo scisma del titolo (e anche della sezione finale del poemetto) è uno scisma d’amore e di separazione?
Avevo intitolato questa silloge Rinuncia al tuo nome, alcune persone che l’hanno letta in tutte le sue stesure preferivano quel titolo, ma altre mi facevano notare quanto poco consono fosse l’accostamento al capolavoro shakespeariano, non per il timore di accostarsi a un capolavoro della letteratura, quanto perché un suicidio non può essere accostato all’amore. Nessuno si uccide per amore, nessuno davvero si uccide perché non ricambiato o scacciato o respinto da una persona. Ci si uccide perché ci si sente respinti dal mondo. Una persona non cambia le cose quando l’intero mondo ci ha respinti, e soprattutto quando quel mondo è ciò che abbiamo costruito dentro. Un mondo di rovine. Lo scisma a cui penso è la scissione anima/corpo, un’incursione nel reale crudo, nella vita in sé, verso il modello schizo di cui scrivono Deleuze e Guattari. O lo scisma di una lesione midollare, in cui una parte del corpo è paralizzata e anestetizzata e la forma del mondo circostante muta irreversibilmente con il mutare dello spazio di cui non si può più disporre.
Ci sono tantissime citazioni di artisti, poeti, musicisti, pensatori, cosa rappresentano per te l’arte e il pensiero adesso?
Ho citato, nei miei versi, i versi di Amelia Rosselli e Alejandra Pizarnik perché sono le due voci che hanno forgiato la mia; e all’inizio di ogni sezione pochi versi di tutti i poeti che leggo e rileggo come mantra, per imparare una lingua che non sia quella della quotidianità, della putrida realtà; così come i brani musicali di Bach, Schubert, Schumann, Beethoven; o il pensiero di Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger, Blanchot, Lévinas, Weil. L’arte è una porta per uscire dalla realtà, mentre la filosofia una lente d’ingrandimento che viviseziona le sue ceneri. Fondere le due cose, come io da sempre faccio, è da condannati a morte. La mia è una postura postuma. Anche perché so che dalla vita nella vita non c’è da aspettarsi nulla. E per scrivere qualcosa di buono occorre immaginarsi morti, abbandonare il gioco, la gara, fare un proprio gioco e aspettare che venga compreso senza mai crederci davvero, perché quanto più speri accada tanto più non accade, quanto più credi nel gioco tanto più ci si prende gioco di te.
Quando ti ho conosciuta stavi scrivendo il tuo romanzo d’esordio, ne è passato di tempo, pensi di essere molto cambiata?
Sì, ho scoperto che prima di scrivere occorre leggere. Rido. Davvero, il cambiamento è essenzialmente stilistico, ma è la lingua che muta anche qualcosa di più profondo, le parole che usiamo per definire i vissuti diventano i nostri vissuti.
Quanto tempo hai passato in ospedale?
179 giorni, tra rianimazione e unità spinale.
Hai sentito davvero, uscita dalla clinica, la “nostalgia del reparto” come hai scritto che sarebbe accaduto?
Sì. Nel poema è raccontato solo il dentro (anche se ora si sa che è stato raccontato attraverso il fuori), ma se dovessi raccontare il fuori sarebbe uno scontro con le forze vitali da parte di una persona che ne ha lasciato una cospicua porzione nella terra di nessuno. L’ospedale mi manca ogni giorno perché non mi sono mai sentita abbastanza forte per vivere fuori, per lottare per raggiungere i miei obiettivi. La rianimazione non mi manca per niente, era un’angoscia quotidiana, tra la veglia e il sonno, imbottita di morfina, paralizzata, piena di fratture, politrasfusa, vivevo nell’incubo; ma l’unità spinale del CTO mi manca tantissimo. Fuori di lì sei un qualunque disabile ma lì dentro avevamo volti e nomi, eravamo protetti. Nessuno voleva veramente uscire di lì e affrontare la vita da disabile. Nel mio caso a vedermi non si direbbe, ma ciò che si vede e ciò che si esperisce quotidianamente non sempre coincidono. In ogni caso, sono grata ai medici che mi hanno operata al San Giovanni, e a tutto lo staff dell’unità spinale del CTO che mi ha rimesso in piedi. E a Dio. Purtroppo, una volta passato l’interesse morboso delle persone per chi è vagolante tra i due mondi, ci si ritrova esattamente lì dove ci si era fermati, con le stesse motivazioni per abbandonare questo mondo, le stesse, tali e quali. Nel punto in cui ci si è interrotti, ci si ritrova esattamente lì. Quello che cambia – si spera sia cambiato, io non lo so se è davvero cambiato il mio modo di reagire alle frustrazioni – è il modo in cui si affrontano gli ostacoli, ma accade qualcosa di strano: più la vita torna simile a prima – più si guarisce dalla malattia fisica – e più tornano a torturarci gli stessi avvoltoi. Una volta una persona molto capace nel leggere i tarocchi mi disse che di fronte a me si dipanavano due strade: una si chiamava morte, l’altra follia. Simpatica, no? Oggi so che La Morte e Il Folle sono arcani di profonda trasformazione, legati alla creatività, che sempre si rigenera rinascendo dalle proprie ceneri, prendendo direzioni impreviste, inarcandosi in piani di cui non ha contezza.
In Giorno 24 scrivi: “Senza amore si vive morti. / Ho chiuso con l’inferno./ Forze cieche si sono servite di me”. Di cosa parli qui?
Ogni mio libro è il seguito di uno precedente e l’anticipazione di un successivo. In Vuoto (Les Flâneurs) scrivevo della paura suprema di Iris: quella di essere irretita in un mondo che come una prigione riflettesse i mostri del proprio inconscio. Aveva paura di essere affatturata da potenze negative, senza mai comprendere quanto di queste forze cieche fosse dentro di lei. Proprio perché mai come in questo caso si può parlare di corrispondenza: la letteratura, la poesia come un doppio mostruoso della vita. Amo molto Kafka, lui aveva il buon senso di separare il diario dal racconto, entriamo perciò in una dimensione fantastica, in cui però nulla si compie, e l’incompiuto è un suo modo per trovare lo spazio letterario, come scrive Blanchot. Non può risolversi una narrazione perché significherebbe sostituire alla legge di Dio quella dell’uomo, l’arte è pur sempre cosa umana. All’artista non è dato di risolvere il problema dell’esistenza, ma di continuare a vagare nel deserto. Io non ho separato mai le due cose, ho sempre trasformato i miei diari in romanzi e poesie, e c’è sempre quell’eccesso di verità che mi annienta, perciò, per non essere realista, ho dovuto trasformare in sogno la vita, per poi trarne qualcosa che potesse avvicinarsi allo spazio letterario. Perciò, forse, i miei diari non sono del tutto veritieri e le mie opere non sono del tutto frutto d’immaginazione, ma una cosa contamina l’altra. Quando scrivo dell’amore che manca, trascinando tutto nell’orrorifico, nel demoniaco, sto parlando dell’amore per se stessi che, mancando, non può che farci legare a esseri che non ci ameranno e a loro volta ci annienteranno.
Ci sono tante figure che s’intravedono tra le tue parole, se dovessi dar loro dei nomi, quali sarebbero?
Scisma prosegue nel romanzo che sto scrivendo – sto mentendo, l’ho finito, ne ho già fatto sei stesure – dove tutto ciò che qui non ha nome prende nome e volto, assume tridimensionalità. Lì, tra l’altro, si tenta di ripercorrere il prima e il dopo, di dare un significato al gesto del levar la mano su di sé. Ho scritto Scisma e questo romanzo nello stesso periodo, a partire dalle suggestioni ospedaliere, ma in Scisma si resta in ospedale, mentre nell’altro c’è l’articolazione di un fuori, e l’ospedale è solo un ricordo, nel fuori si snoda un destino.
Nella nota finale scrivi che questa tua opera vuole “squarciare la letteratura dell’esperienza” per farsi coro oltre la differenza tra “privato” e “pubblico”, pensi di esserci riuscita?
Non lo so, so solo che la scrittura – la scrittura che diventa libro – per me non è sfogo, non è liberazione, è forse più simile a una profezia. E prego che la vita mi lasci un po’ in pace, tanto da far crescere in me lo spazio del fuori. Scisma è una transizione tutta interiore, ma c’è una vastità fuori che attende ancora di essere esplorata, bisogna solo non ferirsi ogni volta che s’incontra qualcuno, oppure lasciarsi ferire senza proteggersi, fino a non sentire più il dolore dello scontro.