L’ultimo dello staff gira per il laboratorio e per l’anti laboratorio, gira i portelloni dei freezer, quando tutto è al sicuro ed è certo che il gelato rimasto sia a temperatura, la gelateria può essere chiusa. Quella sera di qualche decennio fa, però, era estate e il caldo era insostenibile e c’era la fila, la gelatiera era piena e ritardarono il giro. Scoppiò un temporale estivo tipico di agosto, solo più forte del solito, epico lo definirono poi i giornali, e non potevano chiudere la gelateria e buttare fuori sotto l’acqua le persone. La folla era raggruppata spintonandosi dentro la grande sala, i pochi che riuscirono a entrare da fuori si pressarono all’interno. Non ci si muoveva. Pioveva una grandine grossa e pesante, seguita da lampi e tuoni. L’impianto elettrico della gelateria, anni ’70, vecchio e poco manutenuto saltò al terzo fulmine con uno schiocco che superò i tuoni; gridolini di spavento ed eccitazione riempivano la gelateria mentre i banchisti correvano in cerca del quadro elettrico.
Il botto rimbombò dal laboratorio fino alla sala gremita, fu un suono di un’esplosione con rumore di ferraglia, come gli incidenti autostradali quando una macchina si accartoccia.
Uscì da lì. Ma non se ne accorsero subito.
A seguito del botto furono tre banchisti a controllare il retro. Il macchinario usato per montare la panna era ammaccato, il motore alla base fumava. Fu il giovane garzone, assunto per l’estate, a provare a infilare il braccio nella panna gorgogliante per staccare alla base la “campana” dove la panna veniva montata.
Se la panna ha una caratteristica, è quella di essere soffice come il seno di una mamma, pieno e morbido. Il ragazzo, forse insicuro forse non si sa cosa pensava, indugiò con metà avambraccio immerso in quella spuma grassa di latte. Il vecchio banchista Ciro, che poi si licenziò, giurò di aver visto sparire il braccio del ragazzo. A inghiottirlo fu la panna. Raccontarono poi. Con un movimento molle, inglobò prima la mano, corrodendo il polso, poi l’avambraccio strappandolo e lasciando il bicipite per metà colare di sangue e tendini e vene. La panna sembrava insufflarsi aria da sola, cresceva bianca candida lavando il rosso del sangue con se stessa e aumentando di volume. Poi inglobò la testa, il busto fin dalle gambe e trasbordò dal montapanna fino a terra.
I due banchisti iniziarono a correre, la panna lenta e sempre più voluminosa soffiava crescendo sul pavimento del laboratorio. Ciro corse tra la folla gridando, allarmando la sala. La panna aveva riempito tutto il laboratorio della sua consistenza soffice, risucchiando dentro di sé il banchista alle spalle di Ciro, troppo lento per sfuggirne.
Quando la gente la vide, la gelateria esplose di paura. Tutti gridavano, correvano scomposti, mentre la panna silenziosa ricopriva tutta la sala, succhiando e inglobando ognuno dei presenti, quelli incapaci di scappare, gente incredula che avrebbe solo voluto salvare se stessa o i propri cari. Ciro fu il più scaltro, conosceva la gelateria e si chiuse in un piccolo magazzino abbandonato sopra delle scale a chiocciola.
Sentiva chiaro il suono delle grida che andava diminuendo, come se, man mano che la panna avanzava, le persone smettessero di gridare.
Aspettò. Minuti, ore, forse un giorno intero finché nessun suono saliva dalla sala.
Aprì la porta del magazzino e scese le scale, un liquido biancastro e grasso a terra gli si appiccicava sotto le scarpe, seguì la scia fino alla grande sala.
Non c’era nessuno, un liquido lattiginoso copriva il pavimento. Fu Ciro a trovarmi, appena nato ancora sporco di latte, nudo a terra sul pavimento del laboratorio vicino al montapanna.