Arrivano la mattina, in fila, silenziosi. Tu devi rimanere fermo. Se ti muovi, se fai un solo gesto, carpiscono i tuoi segreti, replicano le tue ricette, imparano i movimenti, rubano i segreti. Succede che entrano dalla porta di servizio con cappelli altissimi, giacche stirate, denti aguzzi e gengive rosso rubino. Così funziona da sempre. Entrano, si piazzano davanti all’enorme vetro del laboratorio del Palazzo del Freddo e osservano.
Non si sa da dove vengono e solo io li ho visti. Una volta sono riuscito a fare il giro dall’uscita posteriore del laboratorio, che passa dal magazzino, per guardarli. Perché da dove siamo noi dentro il laboratorio si intravedono solo le loro ombre e il rosso delle gengive. Io li ho visti quel giorno e loro non se ne sono accorti. In eredità la mia famiglia mi ha lasciato il timore verso questi esseri. Insomma ho fatto il giro dal magazzino, sono passato nella zona lavaggio e dal piccolo laboratorio dei Sanpietrini, accovacciato, li ho scrutati fin quando non se ne sono andati via. Li ho lasciati sfilare fino all’ultimo, e ne ho scelto uno da seguire.
Camminava dritto e il collo gli permetteva di roteare la testa con l’alto cappello, indossava la tipica giacca bianca, era piena di coccarde. Lasciava una sottile scia di bava gelatinosa e ho continuato a seguirlo finché non ho capito. Finché non l’ho visto entrare in una piccola gelateria e sparire dentro la bocca del gelatiere intento a preparare gelato al carbone. Giuro di aver visto il gelatiere ingoiarlo, avere uno spasmo e continuare poi a fare il gelato. Ma io lo sapevo, l’ho sempre saputo. Vengono a spiarci da decenni, ci odiano da decenni, tutti quei gelatieri che al posto dell’amore hanno una voragine d’invidia da cui escono questi mostri, pronti a copiare, a colpire e, da quanto so, a volte anche a uccidere.