Valigia pronta, domani parto per le vacanze.
Sto assaporando l’idea di stare seduta sotto un albero accarezzata da una piacevole frescura quando vengo interrotta da un messaggio sul cellulare che mi riporta alla realtà.
È la mia amica di penna (il filo che ci unisce è la scrittura) che mi comunica l’uscita di un concorso letterario nel nostro Municipio.
Mi iscrivo e mentre penso a cosa tirare fuori dal cilindro riemerge da un cassetto della mente un ricordo sbiadito.
1968. Marco, mio padre, faceva “lo spazzino” a Torre Argentina. Iniziava a lavorare che era ancora buio, in solitudine. Il silenzio padroneggiava nella piazza. Tutti i giorni sempre alla stessa ora, appariva una signora con un fazzoletto in testa, portava una busta piena di cibo e tante ciotole. I gatti ormai abituati a ricevere quell’abbondante pasto mattutino erano già posizionati. Mio padre spazzava tra i ruderi e per
strada e nel contempo la osservava muoversi leggiadra, distribuire carezze a ogni gatto e pronunciare parole dolci a bassa voce. Tutto si svolgeva al buio poi come albeggiava la figura femminile riuniva le
ciotole e con passo veloce si avviava verso un portone dietro cui spariva.
Il giorno iniziava e la signora era stata solo una magica apparizione.
Marco l’aveva riconosciuta ma rimaneva rispettoso e non le chiedeva niente di quel mondo di lustrini a cui lei apparteneva.
Tutte le mattine c’era un saluto gentile, una silenziosa compagnia e, se pioveva, mio padre l’aiutava a posizionare le ciotole al riparo e lei con gli occhi lo ringraziava.
Dopo qualche tempo, la signora si presentò: «Piacere io sono Anna, dove abiti?»
«A Centocelle, lontano da qui… spero in un trasferimento» rispose mio padre continuando a ramazzare per nascondere il rossore della timidezza.
«Io spero di no» disse lei piano.
Il giorno del trasferimento arrivò.
Nel salutarla papà le diede il numero di telefono di casa aggiungendo: «Signora, per qualsiasi cosa io sono a disposizione».
1970. Avevo dieci anni. Un giorno a casa arrivò una telefonata.
Mia madre piccata urlò «Una certa Anna ti vuole al telefono, fai presto che di donne qui dentro ce ne sono già troppe» -riferendosi a lei a me e a mia sorella-.
Mio padre intimorito dalla reazione di mamma prendendo la cornetta disse «Anna chi?»
La voce squillante dall’altro capo «Anna Magnani la signora dei gatti… ricordi?»
«Certo!» rispose Marco tra lo stupito e il contento «che piacere signora come sta? Mi dica?».
L’attimo successivo fu caratterizzato da un profondo silenzio.
L’espressione di mio padre passò da incredula a cupa e poi impaurita mentre mia madre col viso arcigno gli chiedeva «Che vuole?».
Marco chiuse la telefonata con «Certo signora può venire ecco il mio indirizzo ci vediamo in serata». Appena riposizionò la cornetta del telefono mia madre in ipersalivazione urlò «Questa
Anna chi è?».
Riuniti intorno al tavolo della cucina mio padre raccontò di come aveva conosciuto Anna Magnani, di quei giorni in cui la mattina presto, senza troppe parole, l’aiutava a dare il cibo ai gatti.
Mia madre che prima si era offesa pensando di aver subito “un torto matrimoniale”, dopo aver ascoltato tutto il racconto, si strinse lo scialletto sulle spalle e disse: «E che dobbiamo fare? Le avevi detto per qualsiasi cosa a disposizione e noi qui stiamo. Purtroppo».
La sera abbiamo cenato alle sette perché alle otto sarebbe arrivata la signora Anna. L’autista ci consegnò quattro gabbie con quattro enormi gatti così pelosi e miagolanti che a noi bambine parvero tigri feroci.
«Starò via quattro giorni» disse lei «non sapevo a chi lasciarli, poi ho pensato a te Marco che sei veramente un uomo buono».
Abbiamo passato quattro giorni d’inferno.
Mia madre con la scopa e lo straccio sempre in mano e noi bambine in silenzio, per non alimentare il disagio. Dopo la prima notte insonne i miei genitori si sono organizzati. Dormivano a turno vicino a noi bambine eccitate dalla presenza degli animali. Non siamo andate a scuola e mia madre ha controllato quattro gatti e due bambine con la stessa dedizione. In casa gli animali facevano quel che a loro pareva perché nessuno aveva il coraggio di sgridarli. Ciotole piene di cibo ed acqua sparse ovunque, quattro
tigri dormivano sui nostri letti. Quando la signora Anna tornò ci abbracciò tutti forte, mia madre in particolare, e a mio padre diede anche un bacio sulle guance. Disse tante volte “grazie” e prima di uscire dalla nostra casa lasciò una busta sul tavolo.
Nei giorni seguenti ho visto papà e mamma sorridenti con l’aggiunta di qualche bacetto mentre noi bambine ridevamo con le mani davanti alla bocca vergognandoci per loro. Un paio di volte siamo andati a mangiare la pizza da “Vladimiro”. Mai successo prima! Ci sono state pure le scarpe Balducci da “Mirti Bambino” per me e mia sorella. In un anno scarpette nuove per entrambe. Miracolo! Prima di allora le scarpe erano nuove ogni due anni solo per me, mia sorella doveva “subire il perenne affronto” di mettere quelle che avevo usato io. Quell’estate siamo andati anche al mare, a Nettuno, due giorni in una pensione dove in una stanza piccolina abbiamo dormito in quattro.
Crescendo avevo dimenticato quell’attimo di vita in cui tutti insieme ci siamo sentiti ubriachi di cose belle e abbiamo respirato un soffio di felicità.
Grazie Nannarella!
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.