Sotto copertura

James Bond deve difendere un bambino, ma non c'è nulla a difendere lui davanti alle domande innocenti di un cuore puro.

La donna di fronte a me è vestita come se stesse a casa: una tuta, un paio di ciabatte e una maglietta con scritto il suo nome, incorniciato da piccoli cuori stilizzati. Si chiama Elena, struccata e con i capelli legati in una coda disordinata, non sembra subire il mio fascino. Peccato.
“Salve” le dico avvicinandomi “Lei è la preside?”
“Coordinatrice didattica. Lei è il nuovo insegnante?”
“Se così si può dire”.
“Sì, si dice così, dov’è il suo cambio?”
“Cambio? Non è previsto nessun cambio”.
La donna di nome Elena sospira e a modo suo impreca.
“Santa pace! Sempre gli scarti, ci mandano qui”.
Sorrido beffardo. La mia copertura è credibile.
“Mi scusi, ma Federico sta piangendo. Lei è assegnato alla sezione dei papaveri. Solo per oggi, giusto?”
Quello sguardo, indagatore e giudicante, non mi piace. Che sia lei il pericolo dal quale devo difendere il piccolo.
“Sì, solo per oggi”.
Ma la donna ha sentito solo la metà della frase perché era già uscita dal piccolo ufficio con un’incredibile
furtività per dirigersi all’ingresso.
La seguo verso l’atrio dove abbraccia i bambini, li fa entrare e saluta i genitori. Finge di essere accogliente e rassicurante. Questa donna è falsa, manipolatrice ed è chiaro che nasconde qualche cosa.
Una volta chiusa la porta, accompagna i marmocchi nelle rispettive classi. Quando decide che non devo più seguirla, mi dice:
“Ancora qui? La sezione dei papaveri è l’ultima a destra”.
Ed entra in una delle stanze.
Percorro il corridoio pieno di poppanti che nella totale anarchia si divertono con giochi organizzati in angoli: casa delle bambole, cucine, mercati, armadi e altri che non vedo. Faccio lo slalom tra vari gingilli per terra.
Qualcuno deve aver fatto un peto, sarà stato un adulto, l’odore è troppo forte. Ma un bambino dice a un altro:

“Dai, basta con le puzzette”.
“Ma è divertente”.
Avanzo in silenzio.
La sezione è ben riconoscibile, visto i numerosi papaveri mezzi rotti fatti di un tipo di carta robusta e
stropicciata, attaccati intorno agli stipiti della porta.
Entro e le urla mi perforano i timpani, un misto di odori di detersivi per abiti mi entra nel naso. Una bambina riccia con i capelli che le arrivano poco sopra le spalle e due occhi enormi, sorridenti e azzurri mi viene incontro.
“Ciao, sono Etter?”
“Ciao, sono Bond, James Bond”.
“Che nome trano, lo sai che ieri sono andata in picina e ho fatto i tuffi”.
“Da che altezza? Di solito preferisco dodici metri, ma anche otto permette delle belle acrobazie”.
Anche questa volta sto parlando da solo, Etter non c’è più, la cerco e la vedo mentre ride, mi indica e gioca con un bambino biondo, lo guardo meglio e lo riconosco: è Martin, il mio incarico.
Sto per avvicinarmi quando sento quella voce volitiva e perentoria dire con fare dolce e delicato:
“Magia, magia, tutti i giochi vanno via”.
I marmocchi si mettono subito al lavoro, riponendo ogni singolo gioco al suo posto. Si siedono nei banchi, oltre qualche piccolo brusio sono tutti rivolti e attenti verso la donna vicino a me: Elena. Mi controlla.
“Bene, piccoli, questo è il maestro James, oggi sarà con noi”.
“Ma quando torna la maestra Simona?” Dice una bambina bionda con le trecce.
“Domani, Flaminia”.
Un sorriso esplode sul viso di Flaminia, ma non sul mio.
“Salve, bambini”.
“Perché sei vestito così?”
“Perché sto lavorando”.
“Ma le altre maestre non sono vestite così”.
“Beh, ma anche tu sei vestito diverso dal tuo amico”.
“Sì, ma le maestre hanno la tuta, non portano la ciavatta”.
Flaminia interviene.
“Si dice cravatta. Ma lui è un maestro, per questo non ha la tuta”.
“Ah già, anche papà si veste così al lavoro”.
“Maetto?”
È Etter.
“Io ho due papà”.
“Bene” dico, non saprei cos’altro dire.
“Bene, bambini” dice Elena porgendo a Flaminia una pallina di carta minuscola.
“Fate sotto mano di papà, solo chi sta in silenzio viene chiamato”.
Indicando tutti con il dito indice. Despota. La donna sospetta mi fa cenno d’uscire.
“Gli orari sono questi. E i nomi dei bambini questi”.
Mi dice porgendomi due foglietti scritti a mano. Noto una macchia sulla sua maglietta che prima non c’era. Lei segue il mio sguardo disgustato.
“Sì, è vomito, per questo le parlavo del cambio. Federico sta male, ho chiamato i genitori. Buon lavoro”.
Se ne va e io entro in classe.
“Bene, cosa fate di solito qui?”
“Il cerchio”.
“Facciamolo”.
Mi sistemo vicino a Martin, che mi dice:
“Sei buffo”.
“Ci racconti una storia?”
“Certo”.
Inizio a raccontare una delle mie avventure, ma dopo dieci minuti si sono già alzati tutti e stanno giocando per conto loro.
“Maetto, quetta toria è noiosa”.
“Ah sì? Cosa vi racconta la maestra allora?”
“La cacca magica”.
“E vi piace”.
“Sì”.
Vedo Etter prendere per mano Martin e andare a giocare con le costruzioni. Mi avvicino.
“Posso giocare con voi?”
Lei fa spallucce, lui se ne frega. Assemblano una serie di masse informi di costruzioni, le chiamano astronavi, case, barche ecc… ma io non vedo nulla di tutto questo. Martin contrariamente è molto bravo, le sue costruzioni sono precise, rispecchiano la realtà.
“Mio papà fa lo spazzino”.
Mi dice Martin.
“Non credo, questa scuola è molto costosa, altrimenti sarebbe un ladro o un truffatore”.
Martin sta piangendo.
“Un vero uomo non piange mai”.
“I miei papà hanno il pisellino, quindi sono macchi e piangono”.
Credo sia meglio che io taccia.
Mi arriva una tazzina piena di sabbia. La prendo e vado a svuotarla nel contenitore. Il bambino si offende e mi dà un calcio sullo stinco. Jaws fa meno male. Tenta di darmi un altro calcio. Lo schivo e lo guardo minaccioso.
Ricambia lo sguardo senza battere ciglio. Poi Flaminia lo chiama e se ne va come se niente fosse. Sono confuso.
Va tutto bene fino a dopo pranzo, quando Etter mi informa che è ora del riposino.
Flaminia mi fa vedere l’angolo del morbido e mi dice che la maestra Simona dorme con loro, quindi devo farlo anch’io.
Mi siedo sul tappeto, lo stesso degli allenamenti per la lotta. Li guardo sistemarsi, in un modo del tutto caotico e allo stesso tempo organizzato.
“Maetto?”
“Dimmi, Ester”.
“Sei bello quando ridi”.
“Lo so”.
“Maetto, ma tu ce li hai i bambini?”
“No”.
“E la fidanzata?”
“Una volta ero sposato”.
“E tua moglie dove tta?”
Mi prendo un attimo per rispondere. Il primo istinto è quello di mentire, ma poi mi chiedo perché. Ester non merita una bugia.
“Non c’è più”.
“Allora dommi da solo?”
“Sì…”
“Da soli si domme male”.
“È vero, Ester”.
La accarezzo, fino a che non si addormenta, vergognandomi per ogni tocco di queste mani sudice di odio e di sangue. Non so da quanto non pensavo a Tracy. Sento le lacrime salire, e in questa strana compagnia di bambini dormienti, le lascio scivolare sul mio viso da troppo tempo arido.
Il cellulare suona: è M. Mi sposto per non disturbarli.
“Come va? La missione è prolungata fino a domani compreso”.
“M, vuoi che continui a lavorare come 007?”
“Sì”.
“Non farmi stare qui”.
“Dai, James, sono solo bambini”.
“Domani non sarò qui. Altrimenti mi licenzio”.
Il silenzio è eloquente.
“Va bene. Capisco”.
Mi concedo di essere ciò che vorrei per altre poche ore. Li saluto e mi fermo al primo bar.
“Vorrei un Vodka Martini. Agitato, non mescolato”.

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