“Paquito e la Yuma” con Marco Rinaldi

Parla un romanziere che si divide tra dramma e umorismo alle prese con un romanzo ambientato a Cuba che narra il complicato incontro tra un povero dodicenne cubano e una ricca trentacinquenne italiana.

Marco Rinaldi è uno degli autori che conosco da più tempo e spesso mi ha stupito per la sua capacità di costruire storie e creare personaggi capaci di emozionare e divertire, con una scrittura limpida e convincente. Da Non voglio bene a nessuno (Alter Ego 2016), storia del difficile rapporto tra un padre e un figlio, decisamente drammatica, a Il grande Grabski (Fazi 2017), spassosa descrizione di uno psicoanalista cialtrone, divenuta anche commedia teatrale con la collaborazione e la regia di Paolo Vanacore (proprio in questi giorni, fino al 17 dicembre 2023, al teatro De’ Servi a Roma). Da poco è approdato in libreria con Paquito e la Yuma (Bertoni 2023, nella benemerita collana Schegge). Il romanzo è ambientato all’Habana, Cuba, e racconta il complicato incontro tra un dodicenne cubano e una trentacinquenne italiana, detta la Yuma nel linguaggio locale, occidentale ricca che si mette in testa di “adottare”, anche se non legalmente, il bambino (che tra l’altro ha già una madre e una sorella, che vivono praticamente in miseria), anzi più che adottarlo lo vuole direttamente “addestrare”, farne un bel bimbetto educato e a modo. La storia va avanti per una porzione non breve della vita di Paquito, dall’infanzia all’adolescenza, attraverso piccole gioie, prove dure e momenti lirici. A me è capitato di leggerla e di apprezzarla anche nelle sue diverse versioni e ora sono davvero contento che sia approdata alla pubblicazione, perfino troppo tardi per il suo valore effettivo (ma ogni cosa a suo tempo, come si dice). E mi pare un buon motivo per fare una chiacchierata con Marco Rinaldi.

 

Conosco la lunga gestazione di questo romanzo, da quanto tempo ci lavori?

Come ricorderai, fu durante un laboratorio sul romanzo del 2011 che mi sono reso conto di avere per le mani una storia che meritava di essere scritta. Da quel giorno ho cominciato a scrivere, cancellare, inventare, riscrivere e sognare di veder pubblicata la mia storia. Dopo circa un anno ho inviato il manoscritto al Premio Calvino. Il romanzo non è entrato in finale ma, sebbene in una versione ancora da sistemare, è stato uno dei pochi segnalati dalla giuria del Premio, con una motivazione molto lusinghiera.

 

Cosa c’è in questa storia che ti ha spinto a narrarla?

La vicenda reale dalla quale prende spunto il romanzo è così intensa, così struggente, che poterla raccontare mi sembrava un grande privilegio al quale non potevo rinunciare. E poi c’è Cuba, o per meglio dire l’Habana, con i suoi splendori e le sue miserie, la sua musica, la magia, la sensualità e molto altro… come fai a non scriverne?

 

I personaggi li hai mascherati in modo che non possano essere riconosciuti?

Dei personaggi reali ho preso solo alcuni tratti del carattere e del tipo di vita che conducevano, non li ho mascherati, li ho proprio, con fatica, sostituiti.

 

Cuba è stata un’isola sognata per molti motivi in Italia, cosa resta di quel sogno?

Il sogno era bellissimo, e anche la realtà dei primi anni dopo il “Triunfo de la Revolution” era entusiasmante. Cosa resta del sogno? Basta chiederlo ai miei amici cubani, pittori, sportivi, dirigenti, peraltro privilegiati, sono quasi tutti fuori o in attesa di andarci. Fino a poco tempo fa, con poche risorse, i cubani riuscivano a mantenere livelli di eccellenza mondiale in molte forme artistiche, nello sport, nella medicina e nell’istruzione, tutte cose che facevano di Cuba una realtà unica e irripetibile. Oggi non ci sono più neanche quelle poche risorse. Il timore è che da un giorno all’altro Cuba torni a essere quella di Lansky e Lucky Luciano.

 

È stato più facile scrivere la figura del ragazzino cubano o della donna italiana?

Ho dovuto riscrivere molte volte la figura di Lilli e le vicende che riguardavano il suo personaggio. La vera Lilli, che non c’è più da una decina di anni, e alla quale ho dedicato il romanzo, era una persona speciale, dal cuore grande, e la sua fissazione di voler adottare il vero Paquito, che una madre l’aveva già, era tanto folle quanto ingenua. Ho dovuto aspettare che se ne andasse per essere in grado, con l’aiuto di Simona e tuo, di staccarmi dalla sua immagine e rendere la mia Lilli più credibile e drammaturgicamente stimolante.  Col ragazzino è stato più facile, la follia, sia nella realtà che nel romanzo, era tutta nella testa di lei.

 

Quando parli di Simona, intendi Simona Baldelli, nel libro c’è anche una sua bella prefazione, anche lei colpita dal fascino di questa storia?

Questo romanzo deve moltissimo a Simona. Da un po’ di tempo lo avevo avevo abbandonato e mi ero dedicato alla pubblicazione degli altri romanzi, ai racconti, all’organizzazione dei concerti jazz a casa mia. Un giorno Simona, anche lei legata a Cuba per averci vissuto a più riprese, incuriosita dai racconti delle mie esperienze sull’isola, ha voluto leggere il manoscritto. La storia le è piaciuta così tanto che mi ha praticamente obbligato a riprenderla in mano, offrendosi di seguirmi nella rivisitazione del testo. Così è stato, e in più ha scritto una splendida prefazione che prepara il lettore al viaggio nella mia storia.

 

Dividi la tua creatività tra umorismo, come nel Grande Grabski, e storie drammatiche, come convivono le due anime?

È una domanda che mi viene posta spesso e alla quale, sinceramente, non so dare una risposta.

L’ironia ce l’ho attaccata addosso, trasmessa da mio padre, e sono contento perché considero ridere e far ridere atti d’amore nei confronti della vita. Le altre storie, quelle drammatiche, narrano sulla pelle dei personaggi le difficoltà e i dolori, le emozioni e le contraddizioni che ho vissuto e che a volte chiedono di venir fuori, quelle sì, mascherate.

 

Ci sarà una versione teatrale anche di questo romanzo?

Non credo, troppi personaggi indispensabili, troppi scenari. Per ora a teatro solo commedie: ironia e grottesco.

 

So che c’è un altro personaggio umoristico nel cassetto, il piccolo Esterino, che cosa ne sarà?

Esterino, sempre diretto da Paolo Vanacore e con le musiche di Alessandro Panatteri, andrà in scena a maggio al teatro 7off.

 

A questo punto del cammino, per te la scrittura è una benedizione, un divertimento o una necessità?

Sempre una benedizione, a volte divertimento, mai una necessità. Non mi piacciono le cose necessarie, preferisco il superfluo. Specialmente a questa età.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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