“L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” di Michael Bible (Adelphi)

Un romanzo che si chiede cosa fare dei nostri corpi, delle nostre anime turbate e molestate, quando il nostro sentire non si accorda a quello di una maggioranza cieca e sorda.

Un romanzo corale, un racconto collettivo e al tempo stesso profondamente intimo e individuale, ambientato nel cuore di un’America devastata, che ricorda i luoghi abbandonati che conservano ancora tracce dell’antica ricchezza. Vecchi vagoni, negozi con le vetrine polverose, di quella polvere stratificata che ostruisce la gola, le speranze che ormai confinano con i rimpianti, e ovunque la reticenza che accompagna il tradimento fatto da uno di noi, uno che è cresciuto tra le nostre case, ha bevuto le nostre bibite dissetanti e ha ascoltato i sermoni e i buoni consigli distribuiti con autentico fervore. Cosa fare dei nostri corpi, delle nostre anime turbate e molestate, quando il nostro sentire non si accorda a quello di una maggioranza cieca e sorda, che intende riportarci a regime? Forse la disperazione, per alcuni, è talmente intensa da non lasciare scampo.

Un giorno, nel bel mezzo di una funzione domenicale, Iggy, un ragazzo poco più che adolescente, decide di uccidersi con un gesto eclatante. In una chiesa battista, tra inni e parole sulla misericordia divina e il castigo riservato ai non eletti, e si cosparge di benzina e intende darsi fuoco. Vuole farlo proprio lì, al cospetto dell’ipocrisia ordinata e serena di una cittadina, Harmony, che lo ha emarginato, rifiutando la sua bisessualità, il suo bisogno di affetto oltre il genere. La vita di Iggy, dopo la morte del suo amante/miglior amico Paul, mandato dal padre, pastore benpensante e indignato dalla natura del figlio, che va piegata subito all’eterosessualità, sembra ai suoi stessi occhi un fardello troppo ingombrante. Ma, nell’attimo catartico tra il cospargere di benzina il suo corpo e il pavimento della chiesa, e l’accendino, succede qualcosa di imprevisto, per cui scoppia un incendio terribile, dal quale si salvano solo la ex maestra di scuola e un bambino piccolo che lei stessa ha trascinato fuori. Iggy rimane vivo, si accusa dell’incendio e, nonostante la morte dei fedeli sia stata un incidente, viene condannato alla pena capitale. Ascoltiamo l’intensità della storia dalle stesse parole di Iggy, che aspetta per 20 anni l’esecuzione, 20 anni trascorsi in isolamento, con l’unico conforto degli alberi di corniolo che vede dalla cella, conforto che non avrà nelle ultime 48 ore di vita, perché la cella dei condannati è un cubicolo chiuso, privo di finestre.

Oltre a Iggy, ascoltiamo la voce dei giovani di Harmony, ormai adulti e anziani, ancora scossi dopo anni da quel gesto che rivendica libertà e follia, quando Iggy, con un lieve e distorto movimento del polso, ha trasformato in cenere non solo le vite dei fedeli presenti in chiesa, ma anche un po’ quelle di tutti gli abitanti della cittadina. Ascoltiamo anche la voce di Cleo, fidanzata di Iggy e Paul, innamorata di quest’ultimo un po’ di più di quanto lo fosse di Iggy, anche se a lui non l’ha mai detto, dominata da una forma di psicosi che lei chiama La Costante, una modalità strisciante e pericolosa che la porta al male.

Cleo, alla ricerca di un rifugio, scopre che le sette spesso nascondono forme leggermente migliori delle prigioni, e la sua fuga la porterà a incontrare un assistente bibliotecario.

L’ultima voce è quella del piccolo sopravvissuto all’incendio, ormai uomo adulto, che ricorda un episodio della sua adolescenza, visto che dell’incendio non ha memoria, e proprio questa voce tira le fila dell’intera narrazione, dove ognuno è inconsapevole del legame che ha con gli altri che, in una certa misura, viene svelato solo al lettore. Una meditazione lirica, poetica e molto dura sulle ossessioni, sul bisogno di nascondere i desideri che tracimano in orrore, e che ricorda, in un certo modo, il canto dolente e lucido dei protagonisti di Spoon River, a distanza di un secolo. L’America rurale è sempre quella, fatta di torte di mele e panna, e sorrisi gentili, che nascondono scantinati bui, e coltelli lucidi di sudore e sangue. Eppure la delicata ricerca di bellezza, in una voce, nel ramo che fa vedere i suoi fiori è già un conforto. Qualcosa che occorre farsi bastare per affrontare ogni futuro possibile.

 

“Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i week end al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio nella barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che abbiamo giurato di non diventare mai. Passiamo le giornate al tavolo d’angolo dello Starlight Diner a discutere i capricci della vita. La nostra Harmony è una cittadina come tante. Tale e quale alla vostra. Piena di santi e peccatori, indistinguibili”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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