Frugando in fondo a un cassetto alla ricerca di batterie per il telecomando, ho trovato la pietra verde del potere.
Sono passati almeno trent’anni, ma prendendola fra le mani mi è sembrato di averla riposta lì appena ieri, dopo averla strappata dalle grinfie di mio fratello nel corso di una sanguinosa battaglia a colpi di solletico.
Ricordo bene dove la trovammo.
Era il 1982. Ci eravamo trasferiti da poco in un minuscolo paesino della Brianza, per seguire il lavoro di papà, e io e Giacomo avevamo fatto presto a capire che sarebbe stato un anno difficile. Gli abitanti del posto, che di lì a qualche anno si sarebbero convertiti al culto del dio Po per riunirsi con cadenza annuale a Pontida al grido di Secesiun, vedevano in noi, gemelli identici che parlavamo con un curioso accento “della bassa”, delle strane creature, e ci tenevano a distanza. A peggiorare le cose, nostra madre insegnava nella stessa scuola media che frequentavamo. Arrivare a scuola in macchina con lei, invece che nello scuolabus come tutti gli altri, diede un colpo mortale alla nostra popolarità.
Solo il mercoledì, quando mamma aveva il giorno libero, andavamo a scuola a piedi percorrendo mezzo chilometro di provinciale che separava il paese in cui vivevamo da quello in cui era la scuola.
Una volta l’autista dello scuolabus ci aveva intercettato lungo il tragitto, e si era fermato per farci salire. Nonostante le sue evidenti buone intenzioni, rimanere per tutto il viaggio in piedi aggrappati ai sostegni, trafitti come San Sebastiano dagli sguardi appuntiti come frecce degli altri ragazzini, fu un tale supplizio che da quella volta, quando ci toccava di andare a scuola a piedi, per evitare lo scuolabus lasciavamo la provinciale dopo il cimitero e tagliavamo per il viottolo che costeggiava un campo arato e sbucava in paese.
Era uno di quei mercoledì quando trovammo la pietra verde del potere, che spiccava in mezzo ai ciottoli bianchi del piazzale della chiesa, proprio dietro la scuola. Era triangolare, liscia, e di un verde bottiglia venato di sottili crepe scure.
La raccolsi e urlai “La pietra verde del potere è mia”, e subito Giacomo me la strappò di mano, “Ah-ah, adesso è mia la pietra verde del potere!”
Iniziò una guerra che ci impegnò per gran parte dell’anno di esilio nel profondo nord. Lui la nascondeva sotto il cuscino del letto, e io gliela sfilavo di soppiatto per occultarla dentro il cassetto dei calzini. Mamma ci ordinava di apparecchiare la tavola e chi aveva la pietra verde del potere era esentato e poteva continuare a leggere Topolino.
Con la pietra verde del potere potevi ordinare a tuo fratello di andare nella tabaccheria in piazza a comprare trecento lire di goleador, scegliere quali cartoni vedere nel pomeriggio, o farlo arrampicare sul muretto per rubare i grappoli d’uva del vicino. Ma era Giacomo a lanciare le sfide più ardite. Con la pietra verde del potere in mano, una volta mi aveva costretto a scavalcare il cancello della villa in fondo al paese sfidando le ire del custode, e anche se me l’ero fatta sotto dalla fifa l’avevo fatto, perché quello della pietra verde del potere era un potere assoluto, cui ti piegavi tuo malgrado perché ti sembrava impossibile non farlo.
Avevamo dodici anni, le cose funzionavano così.
Trent’anni dopo, con la pietra verde del potere in mano, tento disperatamente di sentirmi nello stesso modo.
Ma non funziona.
La pietra verde del potere aveva un potere perché qualcuno oltre me gliel’aveva riconosciuto. In quell’anno trascorso al nord, lontani dai nostri amici di infanzia e in un territorio che non era stato accogliente con noi, io e Giacomo eravamo stati l’uno il conforto dell’altro. Il potere della pietra verde del potere passava da me a lui senza perdersi.
È per questo che l’estate successiva, quando Giacomo giaceva in terapia intensiva dopo l’incidente, avevo messo a soqquadro casa per ritrovare la pietra verde del potere. Avevo frugato in ogni angolo della nostra camera, buttato giù ogni scatola del ripostiglio, ero sceso in garage e avevo aperto ogni armadio, contenitore, le buste piene di oggetti mezzi rotti, le tasche dei cappotti, il baule dove mamma riponeva i giocattoli vecchi.
Ero davvero convinto che se avessi ritrovato la pietra verde del potere e gliel’avessi infilata sotto le dita le cose si sarebbero sistemate.
Quando chiamarono dall’ospedale per avvisarci che non ce l’aveva fatta, rimasi chiuso in camera per ore, con il cuscino sulla testa e un macigno nello stomaco. Ero stato io a ordinargli di attraversare la provinciale saltellando su una gamba sola, affermando che la pietra verde era nella tasca dei miei jeans. Invece non sapevo dove fosse.
Eppure Giacomo aveva ubbidito senza esitazione al mio ordine. Aveva strizzato l’occhio, e con un sorrisetto divertito mi aveva voltato le spalle e si era avviato saltellando incontro al furgone che l’avrebbe investito.
Quando l’ospedale ci restituì gli effetti personali di Giacomo, la pietra verde del potere schizzò fuori dal taschino del suo portafogli.
Doveva averla trovata nel posto in cui l’avevo nascosta da chissà quanto tempo perché la tasca di pelle era deformata, e aveva preso il contorno triangolare della pietra.
La stringo nella mano, adesso, fredda e liscia come un tempo.
La punto contro la TV spenta, ma non succede niente.
Raggiungo il divano e infilo la pietra verde del potere sotto un cuscino, sicuro che là sotto non la troverà nessuno.