C’è un’autrice che presenteremo presto nella Sala Giuseppina della Scuola Genius (il prossimo venerdì 27 ottobre 2023 alle ore 18.30), si chiama Nunzia Torella ed è appena tornata in libreria con un nuovo romanzo dal titolo La cura dell’invisibile (Bertoni 2023). Nel 2019 era già uscita con un libro, Qualcosa di buono (edizioni Augh!), che – malgrado sia stato pubblicato con un nome lievemente differente: Annunziata invece di Nunzia – si lega benissimo a questo nuovo lavoro di Torella. C’è in entrambi il senso della vita quotidiana con le sue meschinità ma anche con i momenti di bontà, di altruismo che – talvolta seppur raramente – la illuminano. In questo caso la vicenda si svolge in un grande ospedale dove uno dei protagonisti scoprirà che oltre ai farmaci e alle bende per avvolgere i feriti, c’è un’altra possibile cura, che però non si vede. Si percepisce. Nunzia, o Annunziata, come desiderate (io l’ho sempre chiamata Nunzia), lavora come anestesista in un grande ospedale romano. E allora ecco le chiacchiere che ci siamo scambiati in occasione del suo nuovo romanzo.
La cura dell’invisibile si svolge a Napoli, cosa ti lega a questa città?
Mi legano le mie origini.
Ci sono nata e, anche se non ho vissuto lì fin dall’infanzia, la mia famiglia ha trasferito un pezzo di napoletanità a Roma. Io ci sono cresciuta dentro. Quell’alternarsi di commedia e tragedia, di fatalismo e intraprendenza, di furbizia e gentilezza li ho potuti osservare da sempre, sceneggiati in una perenne rappresentazione. Mia madre diceva che i napoletani sono tutti commedianti!
All’inizio vediamo un grande ospedale con reparti modernissimi e altri fatiscenti. Quanto c’è della tua professione nella vicenda che racconti?
Questo è molto attinente alla realtà. Soprattutto nel pubblico, avere migliori rapporti da parte dei referenti con chi dispensa i denari influisce sulla situazione logistica, sarebbe da ipocriti negarlo. Vista la scarsità di fondi odierna, la faccenda non potrà che peggiorare, temo.
Il protagonista somiglia a qualcuno che conosci o è del tutto inventato?
Il protagonista non è un eroe. Più vicino alla mediocrità che alla nefandezza. È uno che si barcamena. Chi può dire di non somigliargli un po’? Io non posso.
E l’antagonista? Il medico senza scrupoli che fa di tutto per i soldi e la carriera?
Lui è un collage di tanti tipi umani che ho incontrato, non tutti necessariamente medici, anche amministrativi o cattedratici, mossi dalla medesima rincorsa del potere.
Hai mai rischiato tu stessa di far passare talvolta la tua carriera in primo piano rispetto agli affetti?
Per fortuna no. Non sono competitiva e questo nel mondo di oggi, a mio modo di vedere, mette al sicuro gli affetti. E, a volte, anche la psiche.
Uno dei personaggi rappresenta il puro idealismo ma concreto, con i piedi ben piantati per terra, tu pensi che sia possibile?
È come stare in equilibrio su una lama. La superficie d’appoggio è strettissima. Ma se si ha il baricentro lontano dalle lusinghe, ce la si fa. A fatica, magari.
Diresti che si tratta di un romanzo anche sullo spirito religioso?
Sì. Il protagonista vorrebbe averne, quando la durezza della vita lo mette alla prova. Ma non lo ha mai coltivato. Ho sempre reputato fortunato chi crede. Chi possiede senso religioso vive meglio, soprattutto le sconfitte.
Anche in questo romanzo, come nel precedente, viene narrato il rapporto genitori/figli, è un tema che ti sta a cuore?
È un tema nella vita di tutti. Anche di chi come me non ha figli biologici. Siamo tutti genitori di qualcun altro, in qualche modo.
Che differenze hai trovato, se ne hai trovate, nello scrivere questo romanzo dopo il primo?
Il primo, Qualcosa di Buono, era una sorta di favola ispirata da una storia della mia famiglia. Qui c’è molto di come io vedo la vita. E le persone. Volevo comunicarlo.
Cosa vuol dire per te scrivere, una fuga nella fantasia o un’immersione nella realtà?
È soprattutto un lavoro su di sé, emotivo, psicologico e anche filosofico. E, meno male, perfino terapeutico. Liberatorio.