Chuck Deckle è un ragazzo che ha dato un calcio all’eredità paterna, al benessere e alla sicurezza della borghesia newyorkese dei fine anni ’70, con tanto di casa in affitto a Martha’s Vineyard. Ha lasciato gli studi e ha deciso di immergersi fino al midollo nella vita vera della working class. Il suo non è esattamente un vezzo o una sfida per provare di farcela, o forse anche, ma trovare un lavoro e tenerselo è il modo inevitabile per pagare l’affitto e le bollette. Solo che gli impieghi che trova, tutti nel settore della carne, li perde perché non riesce a sopportare la brutale schiavizzazione operaia della catena di montaggio. Il buio dei luoghi in cui lavora si sovrappongono a un senso di sconfitta interiore delle persone che lo circondano. La periferia newyorkese, lontana dalle luci scintillanti dei negozi e dalla bellezza dei musei e delle gallerie, nasconde una ristrettezza di vedute di esseri umani che vivono per lavorare e sognare di affrancarsi un giorno dal lavoro, e giocano alla lotteria, bevono, non hanno il tempo né la possibilità di trovarsi un’amante, anche se sono intrappolati in matrimoni logori e astiosi, pieni di esigenze quotidiane soffocanti. In qualche modo misterioso lui sente al contempo di appartenere a quei luoghi quanto di esserne estraneo, eppure non può sperare di trovare un lavoro più leggero e meglio pagato, qualcosa lo incatena al sangue lavato via dalle pompe e alle albe cinerine invernali, quando la città inizia il risveglio alla luce ancora accesa dei neon. Chuck trova una ragazza, alla quale lo unisce il senso di esclusione, e lui non desidera che lei dimagrisca, perché se accadesse non vorrebbe più un uomo in sovrappeso. Il loro legame ha la saldezza fragile che hanno tutti i legami che nascono dal bisogno di trovare un poco di calore, e di tenere lontana la notte.
Chuck appena può fa incursione nel mondo bello di New York, ammaliato da quella stupefacente disponibilità esposta che il mondo dei macellai non capisce e non desidera, con l’ottusità tipica di chi non intende una lingua straniera. La situazione precipita quando, nella sua peregrinazione, si trova a lavorare in un mattatoio kosher, a contatto con le ferree regole dei rabbini incaricati di verificare la ritualità della macellazione e dei clienti ebrei ortodossi. Il senso di scollamento rispetto alla realtà gli esplode addosso e dentro, portandolo ad assumere comportamenti aggressivi che nascono dalla mancanza di corretta comunicazione. È quello che capita a tutti noi, quando siamo sotto pressione, quando sentiamo che mentre il tempo ci passa sopra nei sotterranei, ci sono altre cose da vivere sotto la luce, guardando l’incredibile bellezza che ci regala il pezzo di mondo in cui viviamo. Una narrazione di New York insolita, ma piena di lirismo, di rabbia traboccante e di struggente malinconia. La stessa che sentiamo guardando scorrere il panorama di Roma in un tramonto blu che conserva il suo cuore color arancio. Su un autobus in corsa, connessi a quello che vediamo e che ci arriva dentro a velocità massima.
Quando piove a New York l’asfalto scintilla attraverso una patina di vernice trasparente, e gli pneumatici sibilano in un mondo di polvere e acqua. Nel più crudele dei mesi, le voci femminili che annunciano crisi sono tiepide come latte nel buio del mattino, quando riferiscono di altre esecuzioni, che saranno debitamente commentate nei dibattiti dei macellai che aspettano di iniziare il lavoro, gesticolando nei loro camici bianchi negli spogliatoi, formando nodi e cerchi di otto con le punte incandescenti delle loro sigarette.