Se non fossimo vissuti in determinati luoghi, buoni a orientare il nostro tempo interiore, non saremmo le persone che siamo, e non scriveremmo le cose che scriviamo. È quello che accade a Scott McClanahan che, in una narrazione a metà tra il memoir e il romanzo, mescolando elementi accaduti con rielaborazioni frutto di fantasia, rende omaggio al luogo in cui ha trascorso la sua infanzia e adolescenza. Scott sente il bisogno, condivisibile, di resuscitare idealmente le persone che lo hanno accompagnato nel dispiegarsi del tempo sospeso e crudele tra la nascita e la consapevolezza della vita adulta. Finché non scendi a patti con i luoghi che ti hanno visto bambino non cresci davvero, c’è sempre una sorta di ombra traslucida che ti segue e ti avviluppa, e agli incantesimi di quell’ombra e della vita alternativa che ti proietta nell’anima non puoi sottrarti. E per ricordare e per liberarti del fardello usi le parole, che arrivano alimentate dai ricordi e dalla credibilità narrativa. E Ruby, la nonna bizzarra e affettuosa, con un numero di figli notevole, al punto da vincere ogni anno la trapunta messa in palio dalla Chiesa per la mamma più prolifica, appassionata di pollo fritto e tenacemente decisa a tenere in vita Nathan, il figlio invalido, torna a vivere, insieme agli altri. Perché quando qualcuno scrive di te, sei destinato a non dissolverti.
Scott e la sua famiglia vivono nel West Virginia, a Danese, uno sperduto avamposto rurale nel cuore dei Monti Appalachi dove le distrazioni per lui e i suoi amici sono un diner, un McDonald’s e qualche negozio. Scott ama e odia questo luogo, al punto da soprannominarlo “Crapalachia” con la perfetta ambivalenza che riserviamo ai luoghi e alle persone che non sono stati gentili con noi quando eravamo fragili, e però ci appartengono, ci scorrono nel sangue, ci strutturano come il materiale organico di cui siamo composti. Scott è un bambino che vuole solo essere amato, ma nel mondo abituato a poche parole e a una certa ruvidezza di toni e di abbracci, non c’è molto posto per l’incoraggiamento affettuoso di cui ha bisogno. I bambini con cui cresce sono spesso trascurati dalle madri, indossano cappellini per non esporre allo scherno la testa rasata e umida a causa dei pidocchi.
Però lui si adatta, i suoi amici sono dei ragazzi con disagi esistenziali e talvolta problemi mentali non curati, come Bill che è convinto di essere diventato una patatina al formaggio e che si innamora di una ragazza, Janette, solo perché lei lo saluta.
Non c’è scampo alla dissoluzione a cui va incontro Nathan, tetraplegico e alimentato artificialmente, desideroso di un contatto affettivo con una donna, e che lo trova nell’infermiera che lo assiste, Rhonda, fino a quando questa cosa suscita la gelosia della madre che fa di tutto per licenziarla. Ruby a un certo punto si sottopone a una mastectomia parziale, anche se i medici non la ritengono necessaria, per poter assumere la connotazione di ammalata e avere attenzione. Eppure, c’è una sorta di bellezza torbida e oscura nei rapporti umani e nella povertà dei luoghi in cui Scott è vissuto, il fatto di avere un legame potente, un affetto radicato con le persone, in particolare Ruby e lo zio Nathan, che ha reso la sua infanzia un luogo da visitare, almeno attraverso le sue parole.
Lui sapeva che c’erano due vite per ciascuno di noi e che c’erano famiglie di cui non sapevamo nulla che quella sera ci stavano cercando. Anche stasera sono là fuori a cercarci. Vogliono farci sapere chi era la nostra vera madre. Vogliono farci sapere chi era il nostro vero padre.
Ascoltate: stanno venendo a cercarci.
Vogliono dirci i nostri veri nomi.