Mariella è ricoverata in ospedale, il suo corpo occupa il letto n. 5 della terapia intensiva, è sospesa nel territorio bianco e confuso del coma farmacologico, e la sua mente, libera dalle incombenze della realtà, costruisce il suo mondo alternativo. La coscienza divaga e ricostruisce, in una serie di istantanee, la sua vita arresa alla volontà di chi ha detto di amarla. Lei è convinta di aver cercato di uccidersi, lanciandosi nel vuoto, a causa della sofferenza causata dalla fine del suo matrimonio; ma in realtà ha avuto una complicata e infausta forma di ascesso infiammatorio al cervello, provocato da una malattia genetica.
In questo tempo tra la vita e la morte, Mariella si racconta, e le mostra anche al lettore, le infinite piccole forme di violenza che fanno da sfondo a due che, esausti, hanno smesso di amarsi, ma ancora non riescono a dirselo con chiarezza. E poi c’è il rapporto con il padre, che ormai si è rifatto una vita, con una nuova moglie e un’altra figlia, Plinia, che lei ha visto pochissimo, esclusa come una copia mal riuscita dalla seconda possibilità familiare che il padre si è dato. La difficoltà di comunicazione tra lui e la seconda moglie esibita come lo scudo per l’assenza. Eppure, Mariella vuole bene al padre, con il trasporto che provano gli esuli emotivi, i bambini ridotti a nomi nei ricordi e nei racconti, il dito che indica una macchia di colore sulle foto.
Il ritorno di Mariella nella terra dei vivi le lancia addosso la nuova immagine che lo specchio le invia: un viso sciupato, con il cranio solcato da una cicatrice che le divide in due la testa, la rivelazione, neppure troppo sofferta, che il marito Guido è andato via da tempo, e che la sua permanenza in ospedale è dovuta a quella mutazione genetica che le è stata trasmessa dalla madre. La sua nuova pelle è fragile, talmente rosa da spaccarsi e sanguinare come quella dei neonati prematuri, appena si esercita una pressione leggera, e il mondo, con tutte le sue richieste, scadenze e debiti, non è pronto per accogliere questa donna uscita dal coma, con priorità diverse da una conference call.
Mariella mette in pausa il lavoro e il mondo che conosceva prima, cercando di ricomporre i fili che la legano a una corporeità straniante, ma forse, più autentica rispetto a quella vissuta fino ad allora. Nei suoi ricordi emerge l’Abruzzo, terra di origine del padre, e dove lui continua a vivere, l’Abruzzo anarchico e sordo al tentativo degli uomini di asfaltare le montagne e ridurle a confortanti pezzi di cartolina. Il tempo passa, lei riemerge e acquista consistenza, come una fotografia, i suoi contorni si colorano con le prime piccole speranze di una sopravvissuta, destinata a vivere per sempre con la preoccupazione e l’ansia di una malattia senza cura. Nel filo bianco che collega insieme i suoi amori, irrompe una delle grandi tragedie italiane degli ultimi anni, il crollo di un resort, e la ferita di una terra che distrugge la prepotenza miope degli uomini. C’è uno sguardo, una corsa, un’attesa, un ritrovarsi nelle corsie affannate di un ospedale, e c’è una donna, con la pelle e l’anima segnata, ma viva e vitale, senza più rabbia, una persona esposta e lucida, in un momento di consapevolezza che fa acquietare quella specie di buio divorante che tutti noi umani ci portiamo dentro e che ci segna il passo. Siamo destinati all’oblio, ma, prima di questo disfarsi, siamo corpi e anime che si arrendono alla vita e trovano, piano, con un dito sulle labbra a soffocare singhiozzi, piccole e irrinunciabili forme di felicità.
Provare a fare finta che tutto sia uguale a prima è difficile.
E poi lo so, ormai, che quel gene è difettoso, che il mio corpo, persino gradevole se visto da fuori, è nato rotto dentro: è il sapore denso della violenza del dato riportato su un foglio, che in qualche modo solleva e chiarisce, ma non lascia scampo. L’ ho letta così, io, la mia mutazione, che ha un nome dal suono troppo dolce per fare male, Proteina.
C’è un orologio sul muro che batte il tempo straordinario delle attese delle cose sospese a mezz’aria non dette di qualcosa che non smette d’insistere sui piani inclinati dell’esistere prima di questo grattarsi dal fondo dei cocci, di sguardi, di corpi. Emergiamo dai sogni confiniamo con gli incubi, cogli sguardi degli altri. Con tutti i dolori possibili.