Che brav’uomo questo Padrino!

Come si fa a rendere simpatico un criminale spietato?

Una delle scene cinematografiche più riuscite tra quelle che raccontano la mafia è senza dubbio l’inizio del primo film della trilogia del Padrino, diretta da Francis Ford Coppola. È una scena tra le più note nella storia del cinema, ma è stata probabilmente anche una delle più difficili da realizzare, anzi più che da realizzare proprio da ideare. Sono i primi minuti di un film che deve raccontare le gesta di un criminale spietato, quello che io definirei semplicemente un mostro (al bando il buonismo), capace di uccidere a sangue freddo i rivali, taglieggiare, punire ferocemente. Eppure, visto che si tratta del protagonista del film, deve esserci perlomeno un poco simpatico. Altrimenti smetteremmo subito di vederlo. E malgrado i miei pregiudizi questo Don Vito Corleone, pure perché era interpretato da Marlon Brando, è stato subito simpatico a tutti.

Ma come si fa a rendere simpatico un pericoloso criminale quando si racconta una storia?

Ci ripensavo guardando gli articoli che stanno uscendo sui siti e sui giornali dopo la cattura del criminale mafioso Matteo Messina Denaro, altrettanto mostruoso e per di più nemmeno di fantasia ma reale. Mi sembra che tutti facciano a gara a umanizzarlo, a farci vedere i suoi lati sentimentali e curiosi, come se la nostra società dello spettacolo debba comunque sempre trattare ogni evento come una puntata di Amici di Maria De Filippi o semplicemente perché dal Padrino in avanti, passando per Romanzo Criminale, Gomorra e via dicendo, il delinquente ormai ci fa simpatia. E così apprendiamo dalle cronache che il latitante aveva un poster di Marlon Brando nei panni di don Vito Corleone, uno di Joaquin Phoenix in quelli di Joker. Una biografia del presidente russo Putin, e poi le solite pietre preziose, i profumi, le scarpe costose, compresse di Viagra, abiti da cafone firmati Prada e Louis Vuitton, perfino magneti da frigo raffiguranti personaggi di fumetti e cartoni animati come “Masha e orso”. Che tenerezza. Ci viene raccontato pure del suo rapporto difficile con la figlia, poverino. Ma questa è cronaca, ce la raccontano i giornalisti. Cosa diversa è la narrativa, come si fa a rendere simpatico un criminale spietato?

Il padrino, il romanzo di Mario Puzo dal quale è tratto il film di Coppola, la prende larga. Ci fa vedere prima un processo nella III Sezione Penale della Corte di New York dove viene negata giustizia all’italiano Amerigo Bonasera, poi descrive il cantante alcolizzato Johnny Fontaine incapace di vivere e perfino di avere a che fare con sua moglie, quindi narra del giovane Enzo che ha paura di essere rimandato in Sicilia e chiede al futuro suocero Nazorine di essere protetto. E tutti loro sanno che c’è un solo uomo a cui rivolgersi: «Per avere giustizia dobbiamo andare in ginocchio da Don Corleone» dice Bonasera; Fontaine ha un solo affetto in cui ancora confida, il suo Padrino Corleone; Nazorine sa che c’è un solo uomo che può sistemare una simile faccenda, il Padrino, Don Corleone.

E poco più avanti Puzo descrive Don Vito Corleone a un ricevimento per il matrimonio della figlia:

 

Don Corleone riceveva tutti – ricco e povero, potente e umile – con le stesse manifestazioni di affetto. Non trascurava nessuno. Tale era il suo carattere. E gli invitati, dal canto loro, proclamavano che stava tanto bene con l’abito da cerimonia, che un osservatore superficiale avrebbe potuto facilmente scambiarlo per il fortunato sposo.

 

Insomma, a questo punto ci sembra proprio un vero benefattore, un signore rinascimentale con la sua corte. E il romanzo può avere inizio.

Nel film, invece, la questione è risolta in modo molto più veloce. La scena iniziale ci fa vedere il volto di un uomo che emerge dal nero con la grande musica di Nino Rota a riempire la scena, vediamo che sta parlando con qualcuno che non riconosciamo perché è di spalle.

Ma adesso facciamo così, guardate la scena e poi ne parliamo.

 

 

Avete visto? Insomma, Don Vito (è lui che era inquadrato di spalle), renderà a Bonafede giustizia, più che altro direi vendetta. Ma si rifiuta di uccidere i due stupratori («Tua figlia è ancora viva») e poi la scena si conclude con una battuta incredibile detta da un Padrino della mafia: «Noi non siamo assassini»). E, particolare ancora più toccante, il Padrino sta addirittura accarezzando un gatto. Viene proprio voglia di dire: Che brav’uomo questo Padrino! E da quel momento in poi noi stiamo tutti con lui.

Capito come si fa?

 

 

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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