Più Eula-Beulah per tutti

Certe volte penso che ci vorrebbe una Riforma dell’arte, quello che il genere umano mette in atto per abbellire la sua vita e cercare di capirla

Certe volte penso che ci vorrebbe una riforma dell’arte. Per arte intendo tutte le espressioni che il genere umano mette in atto per abbellire la sua vita, scavarla a fondo, cercare di capirla al di là di scienza, religione, leggi o filosofia. La musica, i dipinti, i romanzi e i racconti, le poesie, le performance, i graffiti, la body art, il ballo e il balletto sono un modo per fare i conti con l’infinita complessità inesplicabile della nostra natura. “Se il mondo avesse un senso io non scriverei” disse una volta Jean Cocteau; quindi, fare arte significa interrogarsi sul senso del mondo.

Va bene – mi direte – e quindi cosa dovrebbe essere riformato?

Il valore che diamo all’arte. Al giorno d’oggi, ogni espressione artistica è considerata importante solo per quanto viene valutata economicamente. La musica trasmessa viene pagata al minuto, ogni pittore ha la sua quotazione, il valore di un attore dipende dal suo cachet, un romanzo conta quando vende abbastanza da soddisfare il suo editore e diventare un best seller, un film costa così tanto che per rientrare di quello che i produttori spendono deve incassare cifre enormi.

Il mercato è sempre esistito – mi direte – e allora?

È vero, anche gli artisti del Rinascimento lavoravano su commissione. Eppure, nessuno li ha mai considerati grandi solo per quanto hanno guadagnato.

Si sa che Mozart morì povero, nessuno pensa che sia stato un mediocre per questo.

Tornare a valutare l’arte non per il suo prezzo ma perché rappresenta un tentativo di comprendere l’esistenza, basato sulla pura estetica. Ecco una riforma necessaria. A parte le quotazioni di mercato, non facciamoci illusioni: fare arte è un uso improduttivo di risorse umane per un obbiettivo probabilmente irraggiungibile, ma la cui ricerca è per qualche motivo un compito inerente la natura umana, così continuo nei millenni da apparire indispensabile.

Naturalmente ci sono bravi artisti che guadagnano molto, perfino troppo. E qui nasce una sindrome ben conosciuta, la sindrome dell’impostore. E cioè la sensazione che tutto il successo che si è ricevuto non è meritato, tutti i risultati raggiunti sono eccessivi per i propri scarsi pregi, per la qualità della propria opera. È questo che probabilmente rende alcuni artisti di successo sempre un po’ depressi.

E in effetti basta ascoltare come si lamentano, nelle canzoni scritte dopo i trionfi di pubblico, alcuni anziani cantautori ricchi e famosi, per chiedersi se sia solo marketing (“Il pianto frutta”, come diciamo a Roma) oppure una vera pena interiore, che razionalmente sembrerebbe immotivata. Hai tutto, mio caro, “e allora che te piangi?”

E poi c’è la critica, quella dovrebbe darci il giusto valore di un’opera d’arte. Nell’arte figurativa, nella musica, nella letteratura, ecc., ma i giudizi dei critici sono spesso discussi (difficile trovare un artista che accetti con autentica nonchalance una stroncatura, senza pensare che il critico non abbia compreso la sua arte) e sono talvolta in contrasto l’uno con l’altro (ed è pure questo il bello del dialogo intellettuale, no?). È un discorso troppo complesso da affrontare in poche righe. Il terreno si fa scivoloso.

Prendiamo per esempio Stephen King. Nicola Lagioia, in un articolo per “Internazionale” di diversi anni fa, metteva in guardia quelli che snobbano uno “scrittore che gli accademici del futuro apprezzeranno con lo stesso ritardo con cui oggi alcuni di loro possono accendere il mutuo per la casa al mare sguazzando negli oceani di Philip K. Dick ed Edgar Allan Poe”.

Ma lo stesso King ci ha narrato nel suo memoir On writing come ha imparato ad accettare le critiche negative, grazie alla sua governante Eula-Beulah (già il nome sembra tratto da un romanzo del terrore, oppure sarà il contrario?), leggiamolo nel suo inglese che a molti critici sembra poca cosa se paragonato ad altri narratori più amati:

Eula-Beulah was prone to farts—the kind that are both loud and smelly. Sometimes when she was so afflicted, she would throw me on the couch, drop her wool-skirted butt on my face, and let loose. “Pow!” she’d cry in high glee. It was like being buried in marshgas fireworks. I remember the dark, the sense that I was suffocating, and I remember laughing. Because, while what was happening was sort of horrible it was also sort of funny. In many ways, Eula-Beulah prepared me for literary criticism. After having a two-hundred-pound babysitter fart on your face and yell Pow!, The Village Voice holds few terrors.

E cioè, nel mio italiano che è ovviamente perfino peggiore del suo inglese:

Eula-Beulah faceva scoregge – del tipo sia rumoroso che puzzolente. Certe volte, quando sentiva che ne arrivava una, mi buttava sul divano, mi metteva il sedere in faccia, mi copriva con la sua gonna di lana e si lasciava andare. «Pum!» strillava, allegra e soddisfatta. Io ricordo il buio, la sensazione che stavo soffocando, e ricordo che ridevo. Perché, anche se quello che stava succedendo era una cosa piuttosto orribile, era anche una cosa piuttosto divertente. In molti modi, Eula-Beulah mi ha preparato per i giudizi della critica letteraria. Dopo che ti si è seduta sulla faccia scoreggiando una babysitter di novanta chili che grida «Pum!», The Village Voice non ha molto di spaventoso.

Prima di tutto probabilmente c’è bisogno di una riforma delle babysitter.

E forse allora mi sbaglio. Invece di una riforma dell’arte, c’è bisogno di una riforma delle esperienze che fanno di un artista un uomo. Che tutto dipenda dalla vita che fai quando scrivi, dipingi, suoni? E anche dalla vita che hai fatto prima che il pubblico ti accettasse oppure no? Forse è quello che ti insegna a dare il giusto valore alle cose che arrivano? Il successo, l’insuccesso, i soldi, la banale vita quotidiana, le piscine con acqua riscaldata sul tetto di un grattacielo a Manhattan o la metropolitana fredda tra Ponte Lungo e Vittorio Emanuele?

Più Eula-Beulah per tutti.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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