Gianni Ragani posa prima un piede poi l’altro sulla bilancia. Si specchia, guarda l’asticella che si muove veloce poi a scatti, poi ancora veloce poi a scatti. Centosessantanove chili. Senza vestiti centosessantasette e mezzo, si ricorda. Si toglie la camicia, poi la maglietta e sfila le due canottiere. La lancetta balla. Si guarda, guarda la bilancia. Centosessantotto e mezzo. Toglie i pantaloni, guarda il suo enorme ventre che abbraccia l’inguine invisibile come le cosce, guarda la bilancia. Centosessantotto. Scende dalla bilancia prima con un piede, poi con l’altro e si riveste uscendo dal bagno.
Mezzo chilo.
All’ingresso indossa le scarpe, numero trentasette, lui ha il trentotto. Il braccio formicola. Un paio di Clark sformate, due ballerine come voleva la mamma. La mamma glielo diceva sempre:
– Hai i piedi piccoli, devi danzare!
Sulle punte, evita gli oggetti e la spazzatura a terra in giro per casa. Prende le chiavi con l’indice e il pollice ed esce nell’androne al piano terra, poi fuori dal palazzo immerso nella periferia della città. Socchiude gli occhi per via della luce e volteggia con due piroette verso la stazione della metropolitana. Si preme il petto e scuote il braccio.
In metropolitana suda molto, per la tensione delle persone intorno e per il peso. Suda più degli altri, tanto più degli altri, lo vede dall’alone che subito si forma sul petto, sotto le ascelle, sulla schiena. Le tonalità opache degli aloni di sudore sulla maglietta sono varie, accumulate da giorni, lasciate asciugare e indossate di nuovo.
Sfila dalle tasche un libro delle dimensioni di un taccuino. Nelle sue mani grandi appare come fosse una miniatura. È la storia di una principessa libertina morta schiacciata dal suo stesso cavallo mentre vaga in cerca d’amore.
È il mio desiderio più grande. L’amore. Perdere la verginità prima di morire. Mamma me lo diceva sempre:
– La morte è dietro l’angolo, come l’amore. Sono la stessa cosa, piccolo Gianni. – Diceva sempre la mamma.
Il sudore bagnato sulla pelle gli causa un brivido, si scrolla le spalle e stringe le scapole una verso l’altra.
Ma non ci riesco. Non ci riesco. Non ci riesco. Le scelgo in giro per la città, ma non ci riesco. Non ci riesco.
Le mani si bagnano e la bocca si asciuga. Si sfrega i palmi. Ha il volto arrossato.
I calli si grattano l’un l’altro spellandosi. Li guarda, gira sul dorso le mani poi li guarda di nuovo e stringe la bocca maledicendo il torchietto che usa a lavoro. Stringe i pugni.
L’ultima era uno scheletro. Dov’era? Nel bagno della stazione, di quella stazione enorme. Non sembrava così magra. L’ho presa, spogliata sbattuta al muro, nuda sembrava uno scheletro. Mi faceva schifo. Mi è rimasto molle tutto il tempo. Schifo mi faceva. Era magra. Mamma mi ha detto che se una donna nuda è troppo magra, è cattiva.
– Si deve riempire il vuoto, mica si può attraversare. – Diceva la mamma di Gianni quando da piccolo spingeva il cucchiaio dentro la sua bocca.
– Adesso ho voglia, quella voglia che a tenerla ci vorrebbe mamma. – Sussurra Gianni.
Osserva il vagone, intorno a lui c’è spazio adesso. Sa che lo schivano per le forme e per l’odore pungente. Vede una coppia indugiare con lo sguardo sulle sue mani gonfie e poi sui piccoli piedi da ballerina.
Prova a distrarsi, torna a leggere il libro, la principessa gracile schiacciata dal suo stesso cavallo. In cerca di un amore grande, la principessa muore. L’amore schiaccia ancora prima di essere vissuto.
Il vagone frena, una frenata brusca, poi riparte sballottando Gianni e i passeggeri. Gianni alza gli occhi dal libro. Tra le occhiate della gente c’è lo sguardo di una ragazza di non più di vent’anni. Lei ridacchia dietro un velo di rossetto e denti piccoli e bianchi ben curati, distanti. Lo guarda con occhi diversi da tutti gli altri, immersa nella sua gonna che finisce sopra il ginocchio. Gianni vede che è senza calze, indossa stivaletti neri e la pelle olivastra è ingrigita dalle luci a neon del vagone.
È uno sguardo sporco, da principessa sporca.
– Principessa libertina, nessuno aveva mai avuto sguardi simili per me. – Sussurra in falsetto, attento a non farsi sentire.
Quegli occhi, principessa, mi dicono verità indicibili. Sei così giovane. Un fulmine di degrado e desiderio.
Scaccia il pensiero, ma poi il pensiero torna.
– I pensieri malsani vanno e tornano sempre. – Diceva la mamma. Lui lo caccia di nuovo. Torna, il cuore si allerta, batte, formicola un braccio mentre le guarda la maglietta aderente al seno. Via di nuovo. Suda.
Gianni strofina una mano sulle guance rosate e lisce come seta che prudono a contatto con i calli.
È la mia occasione, principessa, sono il tuo cavallo leggero e pesante. Sei tu. Sarò all’altezza te lo prometto. Non sei come le altre.
Spinge il libro nella tasca posteriore portandosi dietro i pantaloni. Struscia le mani sulle gambe, una signora seduta dietro di lui lo guarda e arriccia il naso.
Gianni pensa, mentre gocce di sudore slittano dalle tempie sul pavimento gommoso del vagone.
Si fotta la psichiatra.
Gli viene in mente il volto della psichiatra, poi quello della madre con quell’espressione sformata di quando lo rimproverava che non mangiava.
Chissà se fossi morto quel giorno a otto anni che quasi ho vomitato le interiora, sarei morto magro.
Dal cuore, tra le costole, vibra un flusso. Lo sente fluire attraverso i capillari, in ogni globulo di sangue pieno di grasso.
La metropolitana si ferma, il sangue anche. Il braccio formicola, il petto ora preme.
È il desiderio.
La giovane ragazza scende e gli lancia un’altra occhiata. Il sudore tiene la maglia di Gianni incollata al petto. Saltella sui piccoli piedi sul posto. Guarda la ragazzina, il tunnel è deserto.
È una fermata poco battuta principessa, lo stai facendo apposta principessa, nessuno mi ha mai sfidato principessa. Questa volta tocca a te e questa volta ce la farò. Le altre proprio non volevano, tu invece principessa lo desideri.
Lei si gira, si guarda intorno, sorride. Le gambe gracili di Gianni tremano, lo inchiodano alla gomma del pavimento del vagone. Le porte sbuffano.
Questa volta ce la farò. Principessa monella, ho scelto te.
Il sudore tra le gambe inizia a gocciolare, minuscole gocce di vapore acqueo gli solleticano la pelle delle cosce. Le porte sbuffano ancora.
– Le ragazze Gianni sono cattive, cattive. Sono il demonio Gianni.
Gianni scrolla la testa, scaccia via la voce della mamma e prova a muovere un piede.
La ragazza è ferma vicino a un distributore di merendine. Ora sorride verso il tunnel d’uscita. Alle sue spalle un ragazzo la raggiunge e l’abbraccia da dietro. La bacia sul collo e le sfiora il sedere. Lei si gira, ride, ride e lo stringe a sé.
Gianni Ragani non si muove. La metropolitana annuncia con una sirena la chiusura delle porte. Resta immobile, fermo sul vagone non sente rumori se non quello del suo cuore.
Le porte scorrevoli si chiudono, la ragazzina stringe la mano del ragazzo e si allontanano.
La metropolitana inizia a muoversi. Gianni si accascia a terra. Il formicolio cresce, il cuore non regge, il grasso, l’amore, intasano le arterie. La pelle del volto tira ai lati, una smorfia di dolore, di rabbia pensa.
Sdraiato a terra immagina la sua principessa, sente di nuovo rumori, sente parlare, gridare. Un liquido schiumoso gli riempie la bocca vuota di parole, è acre. La gola si stringe, fin quando il respiro non cessa del tutto e qualcuno tira il freno di emergenza.