“Abbandono” di Elisabeth Asbrink (Iperborea)

Un libro che inizia e finisce con la fuga da un passato ingombrante e termina con la luce impietosa della consapevolezza

Veniamo al mondo con gli occhi chiusi, sporchi di sangue placentare e mucose uterine, il nostro codice genetico che crea legami con chi è venuto prima di noi, la gola intasata dal pianto e la paura della luce accecante che, all’improvviso, sostituisce il buio tiepido che ci vedeva anfibi. Questo libro inizia e finisce con la fuga da un passato ingombrante e termina con la luce impietosa della consapevolezza, una e più storie disvelate a chi scrive e a chi legge, uniti, nella ricerca dell’identità nascosta e obliata, per salvarsi, per sfuggire a ogni forma di pericolo legata a un nome adatto a disvelarne le origini.

Katherine, detta K, un nome che significa guerriera, è l’alter ego narrativo della scrittrice, e desidera avere notizie sulle proprie origini, non accontentandosi della propria pelle, del rassicurante passaporto svedese che dichiara al mondo che non ci sono pericoli per lei e per i suoi figli. Per capire chi è non basta indagare nel passato della mamma nuvola, Sally, emigrata in Svezia dall’Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale, spaventata dalle implicazioni del suo inevitabile cognome ebraico, dalla sua carnagione olivastra che, durante il periodo scolastico, è stata oggetto di prese in giro e di scherzi cattivi. Katherine inizia dalla tiepida luce inglese e dall’incontro tra la nonna, Rita, e il nonno, che non ha mai conosciuto, Vidal Coenca, in una sala da ballo, lo sguardo di ammirazione e desiderio che li tiene insieme, la pelle lucida di sudore e luminosa come una pesca bianca greca, il luogo dal quale Vidal arriva e che lo ha visto emigrante, immigrato e poi cittadino di Sua Maestà britannica, nella primavera del 1928. Vidal è un ebreo sefardita, nato a Salonicco, quando ancora esisteva l’impero ottomano, imprigionato nei fili dei ricordi della Spagna perduta, nel dialetto castigliano che ancora si parla nei corridoi di casa, e nella ricerca di trovarsi una patria che non si riveli una persecuzione. Vidal ama Rita ma nemmeno la notizia che diventerà padre, una prima e una seconda volta, riuscirà a permettergli di rompere i legami con la sua famiglia di origine, che non accetterebbe come sua moglie una cristiana, e farebbe di lui un reietto, perseguitato da una scomunica, perché il matrimonio con una gentile è Herem, proibito.

Attraverso il filo che unisce Katherine alla famiglia in Inghilterra, lei riesce ad avere notizie sui nonni, ma solo in età adulta, dopo un’infanzia segnata dal divorzio dei genitori, e dal tentativo della madre, ferita dal marito, di separarla per sempre da lui. Sally è fuggita dal proprio cognome ebraico ma ha finito per sposarne uno, anche se ha fatto battezzare la loro figlia, come una forma di esorcismo. “Tuo padre è ebreo, e tu te ne sei sposato uno, e quindi questo è quello che siamo”, urla K durante un litigio, quando le parole proibite smettono di sembrarle tali. Il suo tentativo di ricostruire ponti e ridare ricordi a chi non li ha più la riporta a Salonicco, nella città di pietra bianca, dove la luce scotta e si riflette sul mare come un astro chiaro. Lì trova i resti di quello che hanno visto e vissuto il nonno e la bisnonna, le pietre e le lapidi del centenario cimitero ebraico distrutte dagli operai per ordine del Comune e approvato dai Nazisti, riassemblate nei pavimenti delle chiese, dei musei, dei marciapiedi cittadini, tutto per cancellare memoria e lingua e annientare un pezzo di storia che parte dalla cacciata degli ebrei spagnoli dalla Spagna, la Sefarat, mai dimenticata. Quello che si può fare è trovare un buco nel muro permeabile del tempo, per ricordare gli eventi, perché quello che siamo dipende dalle circostanze che hanno portato al nostro esistere, le persone che si sono unite, senza sapere che, secoli dopo, noi saremmo stati lì, a respirare l’aria in questa dimensione, a piangere i morti e a tentare di dare un senso a eventi sparsi, apparentemente casuali e disordinati.

La famiglia è una pellicola lattiginosa che ci condanna e ci protegge, senza soluzione di continuità, dal mondo, ma che deve risputarci nel mondo, nella rissosa ferocia della vita che brulica dentro e fuori di noi, per farci lasciare il nostro segno sul muro, una riga in un registro, parole sulla pagina.

Sono nata pronta a fuggire. Prima ancora di essere grande abbastanza da capire quello che sarebbe successo, sapevo che sarebbe potuto succedere di nuovo. Sono la terra, il mattino e la vegetazione lussureggiante. Sono le abitudini e i pensieri che si susseguono uno dietro l’altro, non desidero altro posto all’infuori di questo, il posto dove sto, dove cammino. Sono la lumaca che striscia sul muro di pietra sotto le grandi foglie dell’ortensia, sono gli insetti dalle ali trasparenti che annegano nel barile dell’acqua piovana. Sono il sole che spunta in un mattino di dicembre e disperde la foschia, sono nata dall’emigrazione e dalla fatica, dalla perdita e dall’addio, non voglio altro che affondare le mie radici contorte nella terra perché niente mai le possa estirpare, sono tutto questo e non me ne vado da nessuna parte.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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