Intervista a Tea Ranno: “Sto raccontando le vicende di un popolo che mi si sta rivelando pagina dopo pagina, un pugno di amici che è diventato parte integrante della mia vita”

Incontro con l'autrice di una saga letteraria ispirata all'amurusanza

Torna in libreria Tea Ranno, con un romanzo, Gioia mia (Mondadori 2022), che è l’ideale continuazione dei suoi due precedenti, L’Amurusanza (2019) e Terramarina (2020). Dal primo romanzo, che molto piacque ai lettori, Cenere (e/o 2006), non si è più fermata e all’ottava prova romanzesca la sua vena creativa sembra diventata sempre più personale e intima, quasi a delineare una figura di autrice che si differenzia dal resto degli scrittori contemporanei per alcune scelte caratteristiche: le protagoniste femminili, la terra siciliana, la lingua che mescola sapientemente il dialetto (quasi solo l’accento e non troppe parole in vernacolo) con un italiano limpido, le avventure che mettono sempre al centro la crudeltà del mondo, spesso degli uomini, una luce che alla fine sembra illuminare, seppur in modo sghembo, qualche passaggio decisivo delle esperienze umane. Le sue ultime tre opere si dipanano intorno al concetto di amurusanza, parola siciliana che significa più o meno amorevolezza, ma che si può utilizzare anche per un gesto d’affetto, un dono fatto con amore, una carezza, un atteggiamento affettuoso e sincero. In un mondo dove l’amorevolezza sincera è spesso sostituita da atteggiamenti di maniera, direi che un poco di amurusanza farebbe bene a tutti. E quindi ecco che mi è venuta voglia di riprendere idealmente con lei la conversazione interrotta quando è uscito il suo romanzo precedente.


A questo punto possiamo dire che stai scrivendo una saga dell’amurusanza?

Quando ho scritto L’amurusanza, non pensavo di continuare ad abitare la terra Tabbacchera, di frequentare ancora i suoi personaggi: chiuso il romanzo, avevo intrapreso un’altra avventura narrativa molto bella. Poi, un giorno  – era l’ottobre del 2019 – accogliendo il suggerimento di scrivere un racconto natalizio, mi sono imbattuta in una bambina appena partorita, adagiata accanto a un cassonetto, un esserino mezzo assiderato che mi ha irretita e condotta – insieme alla “cricca Tabbacchera” – a Terramarina (naturalmente il viaggio è stato molto più lungo e complesso di quello che un racconto di venti cartelle avrebbe potuto permettermi).

Consegnata la prima stesura del romanzo, anche questa seconda esperienza mi sembrava conclusa, invece, una mattina, è arrivata Luisa Russo che, molto prepotentemente, ha preteso ascolto, e così è nato Gioia mia.

Sto scrivendo una saga? Col senno di poi, non posso che rispondere affermativamente: sto raccontando le vicende di un popolo che mi si sta rivelando pagina dopo pagina, un pugno di amici che è diventato parte integrante della mia vita.

Il finale del libro (non diciamo cosa accade nella trama, ci limitiamo a dire che è piena di eventi talvolta anche tragici) contiene una frase che mi ha colpito: “Detto ciò, potrebbe la vita non ridere? Non cantare?”. Ci sono quindi gioia e allegria nell’orizzonte della tua narrazione?

Quel finale è già intriso di gioia e allegria, perché quanto accaduto in precedenza ha determinato una catarsi, un alleggerimento di pesi, un’apertura a un futuro intriso di speranza.

Che poi ci sia ancora gioia e allegria nei miei progetti, è un dato di fatto: viviamo tempi molto brutti, se la penna può regalarci “leggerezza” che lo faccia con generosità.

Chi è Luisa Russo?

Luisa Russo si presentò, anni fa, come una lingua di serpe, un cuore imbottito di segatura, una di cui mi irritava la petulanza, la spocchia nel giudicare la altre donne. Via via, però, intanto che raccontavo gli altri tabbaccheri/terramarini, prese a rivelare aspetti di sé che mi indussero al dubbio: possibile che sotto la segatura ci fosse altro? Ma fu solo in tempo di Covid che venne a raccontarsi, si scucì il cuore e mi mostrò la carne pestata, il dolore tremendo che aveva blindato nella parte più riposta di sé e che l’aveva cambiata nell’essere antipatico dei primordi.

Luisa è una donna capace, intelligente, ricca di un tesoro affettivo che un matrimonio sbagliato ha inaridito, una donna che fa impresa, che coinvolge nell’impresa le amiche permettendo loro l’emancipazione economica. Ma è anche una madre ferita che, per sanarsi, deve cadere nel mare nero del rimosso, e guadagnarsi, a partire da se stessa, la gioia.

C’è questo gruppo di donne, le “amiche per davvero”. Hai avuto esperienza di amicizie femminili così intense?

Sì, altrimenti non avrei potuto raccontarle. Vivo a Roma dal 1995, lontana da casa e da ogni supporto familiare, le amiche sono diventate la famiglia che in Continente non ho, quelle sorelle capaci, all’occorrenza, di farsi corda che ti tira fuori dal pozzo.

Quanto ti somigliano le donne delle tue storie?

Molto. Mi ritrovo un po’ in tutte, persino nella terribile Stèfana dei miei esordi. Ad Agata la Tabbacchera ho affidato la mia volontà di “cambiare il mondo a colpi di poesia”, di fare politica partendo dal basso, dal popolo, da una democrazia che è, innanzitutto, compartecipazione, soccorso, lotta per una emancipazione attraverso il lavoro che riconosce la dignità di ognuno e se ne fa garante… Ma c’è tanto di me anche in Luisa: l’amore per la terra, il nonno, l’infanzia meravigliosa in mezzo a un circolo di femmine amuruse che spargono in cuore la gioia. Pure Violante ha molto di mio, pure Lisabetta l’erborista, Lucietta la Piangimorti, Franca Cortese, Letizia Greco…

Mi piace il nome “Pietre perse”, l’Italia è piena di luoghi che hanno toponimi che alludono a catastrofi, alla siccità, tipo Monte Spaccato, Roccasecca… potrebbe essere un modo per ricordare la durezza della vita che dobbiamo affrontare?

Potrebbe essere, sì, ma Pietre perse indica, soprattutto, un luogo che l’incuria degli uomini e la potenza distruttiva degli eventi naturali ha ridotto a un quasi niente e che la forza di una donna riesce a cambiare in una “tenuta benedetta da Dio”.

Nell’attribuire un nome a quella terra, avevo bisogno di parole che rendessero più viva l’immagine di una desolazione (“pietre come ossa nella terra sempre più scarsa”) capace di farsi scheletro – struttura portante – di una nuova, rigogliosa e fruttuosa creatura.

In questa storia c’è un marito terribile, ma poi c’è anche Giona. Come vedi gli uomini oggi?

Gli uomini li vedo per quello che sono: perlopiù meravigliosi, talvolta tremendi, talaltra incapaci di riconoscere il valore delle compagne e sostenerlo, spesso fragili e non disposti ad ammetterlo, impregnati di un retaggio culturale che li vuole forti a tutti i costi. I Giona sono la maggioranza, gli Acquaforte la minoranza, che però, come ogni violenza, fa più rumore.

All’inizio c’è un nonno amorevole, è lui a dire alla nipote “Gioia mia”, gli affetti famigliari, l’amicizia, la terra, le radici, la lingua della terra, è questo in cui credi?

Sì, credo negli affetti, nell’amorevolezza, nel bene che frutta bene e lo moltiplica, nella solidarietà e nel rispetto, nella terra che è madre, nelle madri e nei figli in contrasto costruttivo, nei padri, nei nonni e nelle nonne, nella grande famiglia che non dimentica alcuno, nella bellezza, nella gioia.

Ti chiedi mai chi sia il tuo lettore? Pensi di conoscerlo?

No, non me lo chiedo. Non ho un lettore ideale. Intanto scrivo per me: per tornare in Sicilia quando la vita a Roma s’inzuppa di nostalgia, quando devo accogliere un dolore e trovare la forza per superarlo, quando voglio indagare un altro tempo e un altro luogo, quando voglio rintanarmi nel fiabesco per allontanare realtà troppo difficili. Scrivere per me mi permette di essere autentica. Non ho un pubblico da compiacere, un prodotto da confezionare per giungere a una fascia predeterminata di lettori. Scrivo storie che mi piacciono, metto in scena situazioni che mi permettono d’indagare rapporti e sentimenti, il riso e il pianto, le nascite e le morti, la vita, insomma. Credo sia questo che piace ai miei lettori.

C’è un passaggio decisivo che riguarda il mare. Come lo vivi tu?

Il mare è stato il mio spazio di libertà in tempo di Covid. A Ostia ho scritto molte delle pagine di Gioia mia, le orchidee le ho trovate lì, sorprendentemente, dopo una nottata di vento forte. Il mare mi ha dato smisuratezza di sguardo e ampiezza di respiro, possibilità di fuga quando la città era blindata. Nel romanzo è diventato anche il luogo da cui affiorano lacerti di rimosso, quella scura broda di scordanza che restituisce i pezzi di passato con cui Luisa dovrà riconciliarsi per poter liberare finalmente la “gioia sua” e riaprirsi alla vita.


Il nonno tornò indietro: “È un’orchidea” disse, “ed è vera, non di plastica”. Me la rigirai tra le mani: aveva ragione, era vera, e bellissima.



Da Gioia mia, di Tea Ranno

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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