Seguo da molto tempo la narrativa di Carlo D’Amicis, che considero uno degli scrittori più interessanti della sua generazione. So quanto è minuzioso il suo lavoro sulla pagina, ammiro la sua capacità di tirar fuori dalla nostra realtà quotidiana, senza evitarla o nasconderla ma anche senza farla diventare un feticcio o un idolo, delle ricostruzioni e degli intrecci profondi, senza asservire ai fatti contingenti della cronaca la sua scrittura. Mi piace anche la sua capacità di utilizzare spesso un’interessante sintesi tra realismo e fantastico, oltre alla sensibilità che gli permette di trovare soluzioni liriche alla sua immaginazione (ricordo un racconto lungo, poi spettacolo teatrale, che s’intitolava Maledetto nei secoli dei secoli l’amore). Nella sua bibliografia, che ormai comincia a essere notevole, troviamo un romanzo come Il gioco (nella cinquina dello Strega 2018) su un intreccio di relazioni attorno alla sessualità, mai reticente ma anche a suo modo lieve. C’è un interessante testo che racconta della nostra animalità residua: Quando eravamo prede, la narrazione di uno scontro tra ragazzini benestanti e poveri: La guerra dei cafoni (romanzo che è diventato anche un film), e poi La battuta perfetta, che racconta del rapporto antropologico tra noi italiani e la televisione (che poi, visto che Carlo lavora a Radio3 Rai e in tv, la cosa fa riflettere anche di più). È appena uscito il suo ultimo romanzo, s’intitola La regola del bonsai (Mondadori 2022) e già dalla breve sinossi di presentazione, fa venire (a me, almeno) voglia di leggerlo: “A sette anni, mentre assiste con il padre Rudolf allo sbarco del primo uomo sulla luna, Werner Wolf viene a sapere qualcosa che gli cambierà la vita per sempre: sua madre Klara è il frutto segreto della relazione tra Eva Braun e Adolf Hitler”. Era inevitabile, quindi, che decidessi di scambiare quattro chiacchiere con lui sul suo lavoro di scrittore, no?
Quale parte del lavoro della scrittura ti diverte di più, la prima stesura, la costruzione della storia, l’editing?
Non so se diverte è la parola giusta, ma di sicuro quelli che elenchi sono tutti passaggi molto coinvolgenti. La fase più misteriosa è sicuramente quella della scrittura non scritta, nella quale frammenti di vita vissuta, idee e fantasie entrano in contatto e convergono a poco a poco verso una forma narrativa. Di solito non affretto mai questo processo, anzi tendo a rallentarlo per verificare dentro di me la tenuta del progetto, per capire se è davvero una pista che mi interessa seguire. Se il mio interesse tiene nel tempo, se cioè il progetto non svapora, continuando a pensarci (quasi mai a tavolino, perché questa fase di solito si svolge negli spostamenti, sotto la doccia, o attingendo dalla quotidianità – che spesso ti offre inavvertitamente degli spunti) a un certo punto i pezzi cominciano a incastrarsi tra di loro e la storia inizia ad assumere una sua primitiva organizzazione. Arriva allora il momento di mettersi a scrivere, che certamente è la fase più lunga e faticosa, nella quale profondere davvero passione e disciplina. In questa fase è importante avere in testa una mappa e dei punti certi dai quali passare, ma per me è altrettanto importante che la storia mantenga delle zone d’ombra: è la scrittura stessa, cammin facendo, che deve aprire a direzioni e a soluzioni non previste. Una volta finita la prima stesura, ho come l’impressione di aver scollinato: la strada può essere ancora molto lunga ma mi sembra che il percorso diventi pianeggiante, o addirittura in discesa quando si arriva all’editing più minuzioso, dove la scelta di un vocabolo rispetto a un altro ricorda il piacere che prova l’artigiano nel rifinire la sua opera.
I tuoi romanzi sembrano sempre voler indagare temi forti nella società contemporanea. Credi in una letteratura d’impegno?
Ho talmente tanto rispetto per l’impegno che la scrittura richiede, da diffidare di un’espressione convenzionale come letteratura d’impegno. Il saggio pubblicato recentemente da Walter Siti su questo argomento è ricco di illuminazioni, ma per me la questione si concentra soprattutto sullo statuto stesso della letteratura: se il suo impegno è quello di convalidare delle visioni del mondo organiche, codificate e condivise (e per questo spesso ormai logore), la cosiddetta letteratura impegnata ha per me scarso significato. Se l’impegno della letteratura è invece quello di offrire prospettive originali, in grado di esplorare la realtà in chiave profondamente umana, molto prima che morale, politica o sociale, allora sottoscrivo con piena convinzione la definizione di letteratura impegnata e, per rispondere alla tua domanda, m’impegno a mia volta a perseguirne i fini.
Nelle storie che scrivi si trovano descrizioni molto efficaci di animali, in Quando eravamo prede racconti un mondo che mescola la nostra natura umana con quella animale, anche questo ultimo romanzo inizia con un lupo, c’è un motivo?
Come ti dicevo poco fa, per me la letteratura è soprattutto esplorazione dell’animo umano. In questo senso il rapporto con il mondo naturale è uno strumento d’indagine potentissimo: il nostro essere – di fatto – ancora animali e nello stesso tempo ormai lontanissimi dal loro orizzonte istintivo e sensoriale rappresenta una contraddizione che apre a misteri affascinanti e inquietanti. Siamo capaci di gesti sublimi così come di massacrarci a un semaforo per una precedenza. La potenzialità del bene e del male, attraverso il libero arbitrio, allarga la forbice del nostro essere umani e ci pone nei confronti della naturalità animale in una posizione che, sotto l’apparente dominio, nasconde rischi, fragilità, disagio.
Da dove nasce l’idea di questo ultimo romanzo?
Ogni romanzo nasce da tanti spunti, alcuni razionali e altri meno. Alla base della Regola del bonsai ci sono flash visivi come gli uliveti salentini devastati dalla xylella, percezioni epidermiche come il freddo pungente di Berlino, visioni oniriche attraverso le quali, di notte, mi sono ritrovato davanti mio padre e mia madre. Ma c’è soprattutto un disagio che provo da qualche tempo verso il modo in cui la nostra società sta metabolizzando il concetto di memoria, sia essa pubblica o privata: un modo che, a mio avviso, genera più feticci che valori, che divide molto più di quanto unisca, che privilegia il culto del passato rispetto a quello del futuro. Con i tempi e i modi che ciascuno ha pieno diritto di definire per sé, la memoria è un attraversamento che dovrebbe portarci fuori dai conflitti. Se ignorare la lezione della storia ci condanna a ripeterne gli errori, fare di questa lezione un trattato privo di riparazione, perdono, riconciliazione, ci condanna secondo me a perpetuarli, magari con un semplice scambio di ruoli tra vittime e carnefici.
Possiamo dire che si tratta di una riflessione sul Bene e il Male?
Il bene e il male convivono nell’animo umano e sta a noi, prima ancora che scegliere l’uno o l’altro, imparare a distinguerli (operazione meno banale di quello che sembra). Ma, come ti dicevo, non credo sia compito della letteratura mettere ordine nell’etica, rassicurando il lettore sulla prevalenza universale del bene o magari, al contrario, avvalendosi del luogo comune del male immanente e privo di riscatto. Certo, le storie si nutrono anche di tòpoi, e nella Regola del bonsai alcune figure attingono sicuramente al catalogo classico dei villain, prestandosi a una lettura in termini di buoni contro cattivi, ma la sensazione finale che vorrei lasciare al lettore è quella di un viaggio che lo spinga oltre le categorie convenzionali, comprese quelle morali.
Ci sono i baffetti che uniscono il volto di Hitler con quelli di Charlot e Ollio, c’è della farsa anche nella tragedia?
Ovviamente sì e non lo scopro certo io con questo romanzo. Quella del piccolo Werner Wolf, che a sette anni vorrebbe avere dei baffetti come quelli di Charlot o di Ollio per imitare la loro comicità, e che invece si ritrova proiettati sul volto i satanici baffetti di suo nonno Adolf Hitler, è l’emblema delle tante ridicole tragedie che ciascuno di noi ha vissuto sulla propria pelle. Ma è giusto anche ricordare che, nella vita, c’è un tempo per attraversare la tragedia e un tempo per metabolizzarla. Abbiamo in dote una straordinaria qualità umana, derivata dall’unione di pietas, ironia e consapevolezza del sé, che, alla fine di ogni attraversamento, ci permette di sorridere, o perfino di ridere, dei nostri stessi travagli, ricollocandoci così al nostro posto, come un essenziale ma minuscolo tassello nel gigantesco e misterioso disegno dell’universo. Rispettare questi tempi, che ovviamente la letteratura condensa, è essenziale per completare il cammino.
Sei uno scrittore, fai radio da anni, lavori in televisione, hai scritto la sceneggiatura del film tratto dal tuo romanzo La guerra dei cafoni, quale pensi sia il tuo mestiere?
Mi considero davvero fortunato di aver potuto lavorare su così tante forme di scrittura. La fortuna sta anche nella possibilità di travasare da un linguaggio all’altro elementi spuri, che apparentemente potrebbero anche danneggiare il funzionamento di ogni singolo vocabolario, ma che alla fine si rivelano invece una possibilità di arricchirlo. Quanto al mestiere, soprattutto nel campo della creatività diffido dagli status professionali, mi trovo sempre in imbarazzo nel definirmi autore radiotelevisivo, o scrittore o sceneggiatore (anche se capisco che sia normale definire così chi ha delle competenza specifiche e vive di questo) perché si tratta di progetti e di esperienze che vanno attraversati in movimento, di volta in volta unici, prevedendo sempre un’idea di inizio, di sviluppo e, prima o poi, di fine. E forse è anche o soprattutto questa la bellezza (e nello stesso tempo la fatica) di un lavoro creativo.
Nel romanzo La battuta perfetta hai descritto la società italiana trasformata dagli effetti della televisione di stampo berlusconiano, ora pubblichi per Mondadori, non trovi una contraddizione in questo?
La battuta perfetta, in realtà, più che un teorema di critica sociale era un viaggio romanzesco tra i fattori umani (e meno umani…) che hanno spinto tante persone a lasciarsi sedurre dal berlusconismo (inteso come programma politico ma anche come una visione del mondo capace di fondere perfettamente il vecchio e il nuovo). Ovviamente su Berlusconi come leader politico ho avuto e ho tutt’ora le mie idee, ma il romanzo (si sarà capito dalle mie risposte precedenti) provava ancora una volta a esplorare un fenomeno umano, seppure chiaramente inserito in un contesto storico e sociale. Detto questo, molto più che con l’amministrazione Berlusconi, per me Mondadori si identifica con la Medusa o con gli Oscar (che mi hanno permesso di leggere a poco prezzo decine di scrittori che ho amato) o con le persone di grande spessore che ho conosciuto tra le loro file in questi anni (da Antonio Franchini a Carlo Carabba, da Giovanni Francesio ad Alberto Rollo). E’ soprattutto a loro, e a un catalogo storico che mette i brividi, che riferisco il mio orgoglio di appartenere a questa scuderia.