All’imbrunire il terreno si fa umido. Mi ricorda il cacao appena concato. Guardo questo pezzo di terra, vicino Campobasso. Tra suolo e piante, un uomo, stringe una falce. Strofino le mani sui pantaloni, le sento scaldarsi.
L’uomo ha la schiena curva, i capelli scuri diradati e la pelle arrossata, indossa una salopette nera e una maglietta bianca.
Affretto il passo sollevando della terra dal suolo, entro tra i vitigni. L’uomo in salopette, ancora a distanza, sferra colpi con la grossa falce all’erbaccia. Michelangelo Copinori, il figlio del proprietario, immagino. Penso a mio fratello, anche lui è rimasto in famiglia a seguire la vigna del nonno quando i nostri genitori sono morti.
Apro il taccuino e leggo l’appunto sul nome e le caratteristiche della terra; poco calcare, scarsa qualità dell’argilla. Ci si deve lavorare, per questo il prezzo è basso. Questa zona nel cuore del Molise è sconosciuta, penso. Sfoglio ancora il taccuino, ho appuntamenti serrati, domani alle otto devo essere ad Agnone.
L’uomo alza le mani, muove le braccia. La salopette è nera, il viso scavato dal sole incornicia gli occhi marroni che mi ricordano due nocciole. Si china, raccoglie qualcosa vicino a una vite.
– Lo vede? Lo vede questo delizioso, polposo, brillante, zuccherino, rosso chicco d’uva? Ecco, lo assaggi.
Allunga la mano sporca di terra. Sento l’odore dolciastro, terroso. Con un cenno del viso rifiuto. Sorrido:
– Buonasera, – dico, – Sono Manitri, enologo della Vinolibero s.p.a.
– Chi è lei?
– Manitri, l’enologo.
– Io non conosco enologhi, l’enologo. Mio padre. Mio padre. Per quella questione, quell’idiozia. Quell’insulto. Io non vendo. Non vendo, non vendiamo, io non vendo la terra, la terra non si compra, si eredita e questa è la nostra terra.
Stringe l’acino d’uva con le dita, seguo il succo colargli lungo il polso.
Si gratta la testa, la scuote, si scrolla i capelli come se gli prudessero. Lascia a terra la falce.
– Mio padre è il motivo per cui questo dolcissimo, zuccherosissimo, bio-dinamico acino d’uva rischia di diventare un acino qualunque, di un’industria qualunque. Per darmi un futuro, dice. Le radici non si strappano, oh no. Questa terra qui è il mio futuro. Se ne vada. Se ne vada via, subito.
Gli occhi color nocciola sfumano nel grigio. Chiude la bocca, socchiude le palpebre. E ripete: – Vada via.
Indietreggio. Di nuovo in mente mio fratello, lì al vigneto di famiglia a lavorare e a maledirmi per essermene andato.
– Ho viaggiato sei ore per arrivare fin qui Signor Copinori. Domani devo essere ad Agnone, con tutte le firme necessarie.
Gli si tira la pelle in una smorfia. Si muove verso di me, mi prende il braccio.
Il fiato dalle sue narici si mischia al mio, sento odore di vino, cipolla e pomodoro. Stringe la mano intorno al mio bicipite.
– Il vino è prendersi cura, di generazione in generazione.
Alcune gocce di saliva schizzano dalla sua bocca e mi bagnano le labbra.
Scrollo il braccio. Intorno la terra è silenziosa, il sole è quasi del tutto sparito e sopisce inerme, in attesa del buio.
L’uomo mi fissa, ha gli occhi contornati da occhiaie nere che si dilatano come ombre al tramonto. Mi giro, mi allontano verso la casa. Tiro fuori il taccuino. Vitigno a spalliera, Montepulciano e Aglianico, bacca rossa. Avevo segnato tra parentesi l’origine antichissima di questi vitigni, ascrivibile ai Sanniti. Aggiungo un asterisco, appunto di chiamare mio fratello. Chiudo il taccuino. Arrivo alla porta d’ingresso. Mi volto, Michele Copinori è ancora vicino all’erbaccia, tra i vitigni. Guardo la casa, una vecchia casa cantoniera dipinta di un rosso uva annerito dal tempo. Le finestre sbarrate, la porta in legno chiusa con accanto un grosso barile e alcuni rampicanti che si snodano sul muro fino al tetto. Agito la campana sulla destra del portone. Il suono mi graffia le orecchie. Mentre i cardini cigolano, un odore di fumo e zucchero mi si infila nel naso, giro la testa perché è intenso, mi ricorda l’odore nel salone del casale dei miei genitori.
Sento tossire, poi: – Chi è?
– Sono Manitri, l’enologo. Per la vendita.
La porta si spalanca, l’odore di fumo, di dolce, misto a un aroma di carne alla griglia evapora intorno a me nell’aria fino a perdere consistenza.
– Si accomodi.
L’uomo mi precede, cammina lento, immerso tra una barba ingiallita e una salopette beige del taglio di quella del figlio.
– Suo figlio si è un po’ risentito. Della mia presenza, dico. Era su di giri.
– Poveretto. Quel ragazzo non è cattivo. – Dice.
Mi guardo intorno. La casa cantoniera è in mattoni, il piccolo corridoio ha quadri di vendemmie e paesaggi. Entro in un salotto dai soffitti alti dove una parete è colma di bottiglie di vino vuote. Sento di nuovo odore di fumo, intenso, e anche di umidità e di alcol. L’uomo traffica con del tabacco, lo spinge in una pipa, mi fa cenno di sedere al piccolo tavolo vicino all’angolo cottura.
– Complimenti per la parete lì, in salotto, saranno un paio di centinaia di bottiglie.
– Paio di centinaia di bevute, caro mio.
Sorrido. Tiro fuori i documenti.
– Serve solo qualche firma e il conto corrente bancario per la caparra.
– Dia i fogli. – Abbassa la voce, gli occhi gli schizzano alla mano che trema, come per fermarla.
– Quel poveretto di mio figlio avrà qualche soldo in più, ma non capisce. Non pretendo capisca. Lui è come l’acqua, puro. – Aggiunge guardando le bottiglie.
– So di cosa parla, Signor Copinori. Questa terra verrà lavorata al meglio, piante solide e più performanti. Pochi additivi, cantine nuove, degustazioni. Sta firmando per creare valore.
– Mio figlio non può camparsi da solo. Poveretto. Siamo io e lui e questo poco vino che riusciamo a vendere non ha mercato.
L’uomo prende dal taschino della salopette una penna, firma i fogli, senza leggerli. Intravedo da una finestra il vigneto che si stende verso la collina. È un vecchio vigneto di Biferno.
– Io questa terra, – dice l’uomo guardandomi negli occhi, – la lavoro da quando ero bambino.
– Migliorerà ancora. Signor Copinori, – sorrido, – la mia famiglia ha una vigna simile a questa. Mio fratello ha voluto tenerla e a malapena arriva a fine mese. Glielo ripeto sempre, io, che posso aiutarlo. Ma niente, la tiene e non molla. Lei sta facendo la scelta giusta.
– Signor Manitri, giusto? Quanti anni ha?
– Quarantanove.
– Vede, io ho ottantanove anni. Sono malato. Mia moglie è sepolta qui, tra questi campi e mio figlio non può farcela da solo. La terra non sempre restituisce.
– Restituisce?
– Significa che persone come lei non è detto possano capire.
La casa cantoniera si fa scura, il sole sta sparendo, un brivido mi attraversa le braccia. Con l’andarsene del sole, il Signor Copinori appare ancora più anziano, vedo la barba ispida, le rughe scavate, gli occhi pallidi, le mani ombrate di succo d’uva. Muove la penna come se si stesse svuotando.
– Tutto bene, signor Copinori?
– No. Le sto vendendo l’anima. Sto vendendo parte di me, della mia vita. Sto insultando la mia famiglia. Lei come si sentirebbe?
– Sta vendendo per valorizzare, Signor Copinori, gliel’ho detto. Per suo figlio.
– Sto vendendo.
Restiamo qualche istante in silenzio. Mio fratello da vecchio, penso guardandolo. Allungo una mano sulla sua spalla, lo sfioro appena. Mi sono abituato all’odore di fumo denso, caldo. Inspiro.
L’uomo sfoglia le pagine, aggiunge una firma che gli era sfuggita e alza la penna dalla carta. Sento sbattere la porta. Guardo il corridoio.
Il giovane Copinori è sul ciglio, dalla mano destra pende un grappolo d’uva. L’altra mano, più indietro rispetto alla gamba, stringe la falce con cui prima tagliava l’erba. Si avvicina, guarda me. Il padre si alza.
– Non venderemo, papà.
Muove la falce, la mano si arrossa per la pressione.
– Michele. Figlio mio.
– Papà. Queste vigne. Le nostre vigne. La mamma è qui, su, sopra la collina. Non puoi farle questo. Io posso farcela.
– Metti via la falce Michele. Venderemo questi terreni e io morirò in pace e tu non avrai debiti.
L’anziano si muove, si piazza davanti a me. I due si guardano immersi l’uno nell’altro.
Il giovane alza la lama, vedo vibrare il braccio. Continuano a guardarsi. Indietreggio. L’aria si muove per il fendente. Chiudo gli occhi.
Sento lo schioccare della falce sul legno. Apro gli occhi. L’attrezzo è piantato a terra, in un solco di legno arricciato.
– Se ne vada, per favore. – Dice l’anziano guardandomi.
Il giovane tiene la testa appesa verso il basso.
Mi viene in mente l’amore di mio fratello per la terra, i nostri genitori di cui non mi sono curato; lo sprezzo verso di me non si è mai affievolito. Guardo i fogli firmati, li prendo, ci gioco tra le mani. Scivolo nel corridoio, poi all’esterno. Fuori la luce notturna della casa cantoniera illumina la terra. Alzo lo sguardo verso la collina, in cima dove c’è una piccola radura con una pietra e alcune lanterne. Guardo ancora i fogli, vorrei aver capito cosa può ‘restituirmi’ la terra.
Li strappo. Li appoggio sul barile vicino alla porta e prendo il telefono, mentre mi allontano respiro la terra umida mentre con il telefono chiamo mio fratello.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.