È parte del mio lavoro di editor selezionare pagine letterarie dalle quali prendere ispirazione, soprattutto quando devo leggere in aula qualcosa che possa dare una scossa agli autori che curo. Ma in realtà è un mio vecchio pallino: sto ancora cercando la pagina perfetta, la pagina che racchiuda tutto il senso dell’esistenza.
Questa settimana alcune pagine tratte da Registro di classe di Sandro Onofri.
Buona Lettura.
12 ottobre. Ho chiesto a Christian cosa ne pensasse della pillola contro la timidezza, e se fatto tutto rosso. Ho chiesto Debora, e lei ha abbassato gli occhi e ha sussurrato ‘a professo’, che ne so? Di fronte ai rossori e ai silenzi dell’adolescenza, l’educatore prova sempre un certo ritegno, e anche una forma di rispetto. Sa (magari perché se lo ricorda, c’è cresciuto anche lui) che in quel mondo di timori bisogna saperci entrare, e serve cautela, e che la parola d’ordine non è sempre valida. E d’altra parte ha, per mestiere e vocazione, la presunzione di aiutare l’adolescente a muovercisi dentro se non proprio con coraggio almeno con quell’armamentario, bussole e mappe, necessario per non perdersi e non essere inghiottiti. Ma è anche consapevole che quel mondo riservato, molto concentrato, non è meno ricco di quello in cui crescono i giovani che, per educazione o per indole, appaiono più spavaldi e sicuri. È un mondo semplicemente diverso, con altri ritmi, altri linguaggi, altri colori, una specie di cattedrale spaventosa e magnifica, dalle cui navate penzolano serpenti, ma con le nicchie piene di tesori.
La modernità sta proponendo ulteriori dilemmi all’educatore. L’ultimo ritrovato scientifico, questa pillola contro la timidezza che appunto è in arrivo dall’Inghilterra, è l’ennesima conferma di quanto si complichi questo ruolo. Sinceramente, non saprei più dire con sicurezza se è bene insegnare ai giovani a procedere senza fretta verso la conoscenza di sé e della propria indole, a percorrere con calma, lentamente, la propria formazione, senza assumere acriticamente modelli che arrivano dalla società, dall’ambiente in cui crescono. Non sarà, mi chiedo all’improvviso, che continuando a privilegiare il metodo omeopatico della conoscenza e della riflessione in un mondo che va avanti a bombardi chimiche, io contribuisco a rendere i miei allievi dei disadattati? Noi qui dentro a leggere parlare, è fuori si corre, invece, si pianifica, di domani si vuole certezza e la si vuole subito, si prevede il clima, si assumono vaccini contro certe perdite di tempo quale all’improvviso è considerata perfino l’influenza (quella malattia dei vecchi tempi, che ci costringeva a restarcene in casa per una settimana!), Si standardizzano umori e stati d’animo, e adesso si attacca a colpi di bazooka (perché tale da considerare l’anfetamina contro la timidezza) quale fase della vita così fuori luogo quale è l’adolescenza, incongruente, piena di brufoli e di contraddizioni, di masturbazioni, di timori e fantasie esaltanti, quasi sempre illusorie. Sono qui a parlare con le mie alunne delle loro prime delusioni amorose, e a poche centinaia di chilometri una loro coetanea è stata eletta Miss Italia e già si muove tra denari e telecamere! Mi sforzo di accompagnarli in questo rito di passaggio che la scuola, di presentarli alla vita con i muscoli forti e la mente sveglia è curiosa, ma mi chiedo anche se la stessa curiosità non si rivelerà handicap, in una cultura che privilegia sempre più le specializzazioni e le competenze maniache, il contrario esatto della curiosità. Mi chiedo cioè se non sto insegnando loro la mia incapacità di adattamento alla realtà, una diserzione dal tempo, una sconfitta.
17 novembre. E quel giorno, caro Marco, a ricreazione, quando mostravi una fotografia alle tue compagne, e loro ridevano in quel modo che hanno le ragazze alla vostra età di fronte alle cose del sesso. Ridevano e mi guardavano, maliziose, ammiccanti. Fingevano di nascondere il riso, ma in modo fragoroso perché in realtà volevano che me ne accorgessi e mi incuriosissi. Sono stato al gioco, ho chiesto che cosa succedeva. Mi sono avvicinato al banco. Tu hai capovolto la fotografia. Non l’hai messa via. Solo capovolta. E loro ridevano.
Ho chiesto cosa succedeva, pronto a mettermi la maschera dell’insegnante che demistifica e toglie ogni velo di proibito ai vostri imbarazzi. Tu hai abbassato gli occhi, grande grosso come sei. Sono state le ragazze a insistere, Elisa, Pamela, Azzurra. Ti hanno tolto la fotografia da sotto le mani e me l’hanno mostrata. C’eri tu, nel mezzo di una stanza, forse in una casa di montagna, col parquet, le pareti e il soffitto di legno chiaro, nessun mobilio. Eri completamente nudo, in una stanza nuda. Ho chiesto chi ti
avesse scattato in quella posa innaturale, un po’ perversa e un po’ sciatta, mezza sfocata. “Mi’ madre,” hai risposto. E te ne sei andato.
22 marzo. Parecchi miei alunni (ma credo che sia un fatto abbastanza generalizzato) considerano la scrittura come una galera seicentesca, e la lingua che convenzionalmente si usa è la classica palla al piede che fa muovere a fatica, impedisce salti e velocità. Le regole che si devono rispettare nello scrivere sono le sbarre, io sono il secondino che non li fa respirare, E la ”parlata naturale”, quella del conversare quotidiano, è invece il cielo azzurro che splende lontano là fuori dalla cella. Le regole ortografiche soprattutto sono le meno digerite, da sempre, perché vengono avvertite come puri e semplici arbitri, visto che l’errore non arriva mai a condizionare la comprensione: se scrivo ”Immaginazione”, oppure “immagginazione”, sempre quello è! Ma anche tutti il resto risulta impacciato, inadeguato come un vestito dalla taglia sbagliata: i periodi sono troppo lunghi, pieni di subordinate che si aggrovigliano e non se ne esce più, le scelte lessicali o sono sempre le stesse oppure sono fuori luogo. I ragazzi stanno nella lingua scritta come in un paio di scarpe troppo grosso: camminano in modo innaturale, smettono di usare il passato prossimo, che pure è frequente nel nostro parlato, e usano più passati remoti di quanti se ne trovino nei testi di Amedeo Minghi. Insomma, sono imbranati.
Così, per farli sentire di più a casa loro e non in cella, in definitiva per fargli scoprire che ci si può divertire anche con una penna in mano, ogni tanto decido di aprire i cancelli e li lascio liberi di scrivere senza regole, così come si sentono, con una traccia molto labile, e con una lingua il più possibile vicina a quella che usano parlando. Anche in dialetto, se ne hanno bisogno. I risultati, in questi casi, sono spesso interessanti, e qualche volta sorprendenti, perché accade che i più somari se ne escano con testi originali e pieni di invenzioni. Un paio di settimane fa, per esempio, una ragazza con la quale litigo tutti i giorni per questi motivi da due anni, mi ha presentato un racconto nel quale descriveva la sua vita
familiare: una paratassi ossessiva, soffocante, quasi interamente giocata su frasi normali, calibrando la posizione delle parole per privilegiare il ritmo. Un pezzo davvero notevole. E non è stata l’unica. C’è qualcosa di prerazionale, nei testi concepiti in quel modo, li rende unici, e anche divertenti per me che mi trovo a leggerli. È lì che, oltretutto, mi aggiorno su certi modi di dire del gergo giovanile, sempre in evoluzione, anche se in modi diversi a seconda delle realtà geografiche. E così, in quegli elaborati, trovano cittadinanza espressioni come “M’hai flesciato” (“Mi hai colpito al primo sguardo”),”Se beccàmo” (“Ci incontriamo”), oppure “Hai imbruttito” (“Sei diventato brutto dalla rabbia”). Insomma, non so se riesco a farli uscire dalle celle, ma almeno concedo di ammobiliarsele a modo loro. E qualche volta, li vedo, ci si affezionano.