Un ragazzo si aggira solitario in un mondo ricoperto di immondizia dall’odore nauseabondo, vive tra la sua tenda logora e un’improvvisata stazione radio in cerca di segnali da altre persone. I cumuli di sacchi sembrano creare percorsi e muoversi senza apparente ragione, aggirandosi tra la sporcizia troverà il senso di quel mondo ostile e vuoto.
Capitolo 3
L’unico segnale che mi capita di captare è un rombo prima acuto poi grottesco che quasi mi fa cadere a terra ed esplodere la testa. Ogni tanto arriva e se ne va, ma ormai sono certo sia nel mio cervello. Qui in cima fa ancora più caldo. Ho costruito la recinzione con le mie mani e il lavoro è ben fatto, resistente e solida la postazione mi ispira fiducia. Ho la maglietta zuppa, il bagnato dell’acrilico mi fredda la pelle. Sono decine e decine di giorni che raggiungo Punta Cielo, invio il segnale, aspetto e vedo spegnersi la speranza. E quel suono che non riesco a decifrare, forte e intermittente le prime volte era cosı̀ spaventoso che mi illudevo di sentire un bisbiglio indecifrabile in sottofondo che mi esortava di stare tranquillo. Poi ho capito fosse immaginazione e, infatti, non lo sento più il bisbiglio. C’è un gabbiotto alla base della torre chiuso con lo spago. A terra sulla destra è adagiato un vecchio zerbino che ho trovato tra i rifiuti con scritto “welcome”, uguale a quello che avevano davanti casa al mare i miei nonni. Sfilo lo spago ed entro. La piccola postazione ha un tavolo di legno cui manca una zampa, l’ho sostituita con delle scatole di cioccolatini rosse aperte sui lati e ripiene di detriti. Nel mezzo ho inchiodato una cassetta per le medicine in alluminio, due fili di rame si connettono al jack che attiva il microfono, quest’ultimo non è altro che un piccolo vaso dagli ornamenti orientali con il collo occluso da una spugna secca su cui sputacchio la mia cantilena quotidiana:
– S.o.s. milleseicenoventunesimo giorno. Mi ricevete? Qui Punta Cielo.
Ho la sensazione di non tenere realmente il conto dei giorni e di non seguire un ordine temporale, sono quasi certo di dare numeri a caso. Sento delle vertigini all’idea dell’assenza di un tempo definito.
– Punta Cielo a resto del mondo, mi ricevete?
I minuti passano, il cielo terso segue la notte di pioggerella e io ho più sete che mai. L’unica speranza è che le bacinelle abbiano raccolto un po’ di acqua piovana. Tanto nessuno risponderà. Mi alzo, ripongo il microfono nella custodia di pelle e vado via. Un rumore dalla base della duna. Sento un rumore, cos’è? sembra provenga proprio da dove mi sono rialzato con la caviglia dolorante. È uno scricchiolio, una plastica che si accartoccia. Poi di nuovo silenzio. Mi affaccio esco, niente. Nessuno. Le bacinelle distano poche centinaia di metri, si trovano dietro ai rottami di una moto. C’è uno spiazzo lı̀ con un leggero avvallamento e mi è sembrato il posto migliore dove mettere dei recipienti a raccolta della pioggia. Guardo la moto ogni volta che passo, mi rapisce e mi incanta e sento di voler andare via. Mi inquieta quel rottame, ha un che di familiare. Sento la caviglia pulsare sotto la pelle, sento un po’ tutte le ossa dolermi e poi c’è troppa immondizia a sovrastare il mondo per potermene andare. Supero la moto e trovo le tre bacinelle, piene di acqua torbida. Quando spegni la sete che arde in gola, è un sole che esaurisce la sua potenza. E anche un mondo che è una discarica ti sembra bello e non te ne vuoi andare. Ritemprato, con un lieve sentore metallico in bocca, mi massaggio la caviglia seduto su un sacco nero. In quel momento, mentre mi distendo, avverto una presenza alle mie spalle.