Alfonsina e la strada è un romanzo pubblicato da Sellerio nel 2021, se per caso ve lo siete perso, date retta a me: recuperatelo, non ve ne pentirete. L’ha scritto Simona Baldelli, un’autrice che ha ormai all’attivo molti volumi e in questo momento ha in libreria anche un’opera per ragazzi edita da Giunti, La neve finché cade. Quello che mi ha colpito leggendo la storia di Alfonsina Strada, la ciclista che per prima sfidò il maschilismo sportivo partecipando, unica donna, al Giro d’Italia del 1924, è stata la capacità di Baldelli nel narrare una vicenda storica reale, con un accurato lavoro di documentazione che traspare dalla pagina senza appesantirla, e nello stesso tempo creare un personaggio romanzesco di grande forza. Leggendo ci immedesimiamo in Alfonsina e trepidiamo per le sue lotte e le sue fatiche. Ma il romanzo è denso di molte altre questioni, quindi vale la pena parlarne direttamente con l’autrice, no?
Quest’anno è stato ricco di vittorie per lo sport italiano. Che effetto ti fa aver pubblicato proprio adesso un romanzo che parla, anche, di ciclismo?
Madonnasanta, direbbe Alfonsina, un elenco di vittorie lunghissimo, inimmaginabile, e perfino in discipline dove da decenni eravamo ai margini, a partire dalle medaglie olimpiche per i 100 metri e la staffetta 4×100. Noi? Le abbiamo vinte noi, davvero? Fino a quel momento, nemmeno sapevamo com’era fatta una medaglia di cartone, figuriamoci d’oro. Alfonsina e la strada è uscito a fine aprile dello scorso anno e quasi ciascuna delle moltissime presentazioni era affiancata da un evento sportivo. Dichiaro subito che, per la prima volta, mi trovavo davanti a un pubblico composto da una percentuale rilevante di uomini. Di solito, il rapporto è di un uomo ogni dieci donne; per Alfonsina, eravamo vicini a un 50%, forse perché incuriositi dal fatto che fosse una donna a parlare di sport, o forse spinti dalla malizia, convinti di ascoltare poco di sport e molto di lavoro a maglia, amori, pettegolezzi. Non so. Sta di fatto che da subito si dovevano ricredere, perché la mia passione per lo sport è reale, profonda, totale e, dallo sconcerto iniziale, passavano allegramente al confronto sui dati, tecniche, risultati, palmares, tipologie di allenamenti…
Contemporaneamente, vedevo il lato femminile della platea trasformarsi. Se all’inizio avrebbero voluto parlare solo di letteratura, o tematiche relative alle “pari opportunità”, nello sport e non, poi si lasciavano prendere la mano ed erano le prime a porre domande più tecniche, a chiedere di sudore e risultati. In molti casi, sentivano di poter liberamente esprimere anche il loro “tifo” senza sentirsi giudicate per volersi intromettere in un tema prevalentemente maschile.
Un esempio su tutti: la presentazione a Settimo Torinese il 16 giugno, nella bellissima Biblioteca Civica Archimede. Quella sera l’Italia giocava la seconda partita degli Europei, contro la Svizzera.
In cuor mio temevo che nessuno venisse alla presentazione perché la Nazionale è seguita da chiunque, a prescindere dall’interesse per il calcio.
La bravissima direttrice della Biblioteca, Loredana Prisco, mi diceva: tranquilla, tranquilla, ai lettori lo sport non interessa.
Speriamo, pensavo io, perché sarei stata la prima a restarmene a casa incollata al televisore.
Insomma, la Biblioteca si riempie. Bene.
Da subito ringrazio i convenuti per il tempo che mi dedicavano e per avermi preferita alla partita e aggiungo, a mo’ di battuta, che non sarebbe stato male avere una radiolina per sentire i risultati.
Non c’è problema, grida il tecnico dal fondo, la sto seguendo al computer, se vuoi ti aggiorno in tempo reale.
Sconcerto di Loredana Prisco e di molti convenuti. Esultanza mia e di pochi altri. Ma, poiché quella svitata dell’autrice voleva ascoltare i risultati, si decide che il fonico ci avrebbe aggiornati in tempo reale.
Ovviamente avevo un’idea in mente, soprattutto speravo che l’esperimento ci aiutasse ad abbattere un po’ di quel pregiudizio che vuole che sport e intelletto non vadano d’accordo, con buona pace di Giovenale e Omero e altri magnifici autori come Soriano, Celati, Pasolini… solo per citarne alcuni.
Quella sera l’Italia vinse 3 a 0, con doppietta di Locatelli e ciliegina di Immobile. Non ti dico l’entusiasmo di tutti. Ci pareva che fosse Alfonsina a spingerci, nume tutelare di un’Italia in maglietta e calzoncini, che cercava il suo riscatto personale e collettivo attraverso un pallone su cui sputare sudore e fatica.
Tutti hanno capito. A partire da Loredana Prisco che, in seguito, mi sono ritrovata a commentare su tutti i miei profili social i post che scrivevo su questo o quel successo. Hai visto che brave? Che bravi? Abbiamo vinto lì, abbiamo vinto qui. Evviva!
“Abbiamo”. È lì il punto. Lo sport è anche un’occasione di coesione, di appartenenza.
Ed è stato così per tutta l’estate, e poi l’autunno, e fino a oggi perché le recenti coppe del mondo di disciplina per lo sci di Goggia e Brignone sono solo le ultime stelle in ordine cronologico di un firmamento che brilla sempre di più.
Come mi sono sentita, quindi? Con un po’ di presunzione, mi sono sentita (ci siamo sentite, io e Alfonsina) parte di un meraviglioso ingranaggio, delle catalizzatrici di energia. Era destino, quindi, che il romanzo uscisse quest’anno e non in quello precedente. (L’uscita era stata posticipata a causa della pandemia e delle chiusure delle librerie nella primavera del 2020).
Alfonsina Strada è stata, come si sa o si dovrebbe sapere, la prima donna a partecipare al Giro d’Italia, nel 1924. Perché hai scelto di narrare la sua storia?
Avevo voglia da tempo di scrivere di sport. A questo desiderio si era aggiunto il bisogno di ragionare sul limite, fisico, mentale, temporale dell’essere umano. Mi è sembrato che la vita di Alfonsina lo raccontasse meglio di chiunque altro. Avrei potuto inventare un personaggio che rispondesse a queste caratteristiche. Ma perché farlo quando la realtà mi proponeva lei?
Mi ha molto colpito l’incipit del romanzo: La fatica, la fatica, nessuno ci pensa alla fatica. Ci sono occhi solo per medaglie e trofei…
Quello che il tifoso vede, è solo il risultato finale, vittoria o sconfitta che sia, e raramente sa o pensa alla durezza degli allenamenti, le scelte da fare ogni istante. Uso questo vocabolo apposta, scelta, e non “sacrifici” o “rinunce” come spesso vengono definiti. Termini mutuati da certe culture arcaiche, o religiose. Se li chiami sacrificio e rinuncia, vuol dire che hai sbagliato la scelta. Che non ne valeva la pena.
Ma questo vale per qualsiasi risultato che una persona si prefigga. Ci vuole costanza, impegno, fatica, sudore, barra dritta, concentrazione, rispetto di sé, fedeltà ai propri sogni. È faticoso, sempre. Per le donne, lo è il doppio. Anche per questo, nell’incipit, la parola è ripetuta, seguita dal punto. La fatica. La fatica.
Quando noi lettori incontriamo Alfonsina è il 1959, l’uomo sta per andare sulla luna. E lei sembra avere con la luna un rapporto speciale. Luna e donna, un legame sempre simbolico, significativo?
Luna e femminino sono da sempre legati in letteratura, esoterismo, in natura. Si pensi ai cicli lunari così rispondenti ai cicli biologici femminili.
Io però ammetto di non averci pensato, anche perché non avevo bisogno di farlo, poiché è un aspetto già presente nell’ordine delle cose.
Per me la luna rappresentava quel superamento del limite di cui parlavo prima.
Fino al 13 settembre del 1959 la luna era una meta irraggiungibile. Da molti anni le superpotenze erano impegnate in una contesa per la conquista. La luna, nell’immaginario collettivo, era il punto irraggiungibile. Lassù scappa il senno di Astolfo, salgono le nostre invocazioni laiche. È il nume pagano che influisce su ragione e sentimento.
Ogni volta in cui, nel romanzo, scrivo che in quel momento c’era la luna crescente, calante, un falcetto, piena… descrivo esattamente la fase lunare di quella data. Era fondamentale che rispondesse a realtà.
Alfonsina è morta negli stessi minuti in cui il Lunik2 toccava il suolo lunare. Mentre se ne andava, ci ha detto: ecco, quello che consideravamo il limite invalicabile, è stato toccato; a partire da questo momento l’orizzonte è più vasto, i confini più larghi. Possiamo fare sogni più sconfinati.
A un certo punto c’è uno scontro sul termine “corridori” al maschile e lei dice: “Piuttosto, per il futuro, inventate delle parole più precise”. Cosa pensi del dibattito contemporaneo sul linguaggio maschile e femminile?
Quello scambio di battute c’è stato nella realtà. Gli organizzatori, nelle volte precedenti in cui lei chiese di iscriversi a gare maschili e loro rifiutarono, lo fecero anche appellandosi a un regolamento che parlava di “corridori”, e quindi al maschile. Lei obiettò facendo presente che nella nostra lingua usiamo il maschile sovraesteso per un gruppo misto.
Venendo a oggi, certamente il linguaggio si trasforma ed evolve, insieme alla quotidianità. Bisognerà trovare “prole più precise” per dirla con Alfonsina, perché sono i vocaboli che definiscono le cose e disegnano il perimetro del nostro pensiero. E quindi determinano le azioni.
Ritengo però che questo mutamento debba avvenire prima nel linguaggio tecnico, se mi passi il termine. E intendo i libri di scuola, articoli, saggi, telegiornali e radiogiornali… là dove la parola ha un significato oggettivo. È necessario predisporre gradualmente all’ascolto e utilizzo di questo miscuglio sonoro nasale.
Nell’ambito della narrativa, del cinema, o del teatro, la parola ha anche una funzione evocativa, asterischi o schwa non corrispondono a nessun immaginario. Un esempio che faccio spesso: immaginiamo (in un romanzo, in un film, uno spettacolo teatrale) una scena in cui la tensione è altissima. Siamo in banca, gli ostaggi sono a terra, sotto mira dei delinquenti. Fuori urlano le sirene della polizia. Il capo dei ladri grida: fermə tuttə, questa è una rapina!
Beh, io sbotto a ridere.
Perché hai scelto di raccontare Alfonsina a quasi settant’anni e non da giovane?
In realtà racconto tutta la sua vita, dalla nascita (con la luna a metà) fino alla morte (con la luna appena calante), inclusa una coda ai nostri giorni, nel 2017 (gibbosa calante). Però volevo che l’impatto iniziale fosse con un’Alfonsina più vicina al nostro presente, più facilmente contestualizzabile. Una persona, non personaggio storico. Per questo ho scelto di partire dalla fine.
Hai già scritto altre biografie romanzate, come si lavora per unire documenti storici e invenzione narrativa?
Si lavora come bestie da soma, si studia, si studia, si studia. Quando pensi di avere informazioni sufficienti ti si apre un’altra finestra che non puoi fare a meno di spalancare e via a cercare nuovi dati…
Scrivere un romanzo storico, o biografico, è infinitamente più complicato che scriverne uno di completa fantasia perché fatti e avvenimenti devono essere inseriti in un preciso contesto, a prova di verifica. Inoltre, la nostra personalità, il nostro senso di giustizia, l’etica, sono il prodotto non solo della nostra biografia, ma di quella di una collettività. Non ci toccano solo gli avvenimenti del privato, ma della Storia di cui siamo testimoni.
È innegabile, per venire al momento in cui ti sto rispondendo, che la tragedia in corso in Ucraina, influisca sul mio stato d’animo. Quindi comparo gli episodi del privato con quelli del pubblico, e li incastro. Dopo un po’ ti sembra che la Storia e la piccola storia che racconti si parlino, facciano canto e controcanto. Ed è una sensazione magnifica, che ripaga di ogni difficoltà.
Puoi immaginare il balzo sulla sedia che ho fatto, nel caso di Alfonsina, quando ho scoperto che il personaggio (la persona) attraverso la quale raccontavo il tema del limite, è morta mentre la sonda toccava la luna e quindi l’umanità diventava più illimitata?
Un altro elemento tipico della tua poetica è l’unione tra realismo e fantastico. Qui compare addirittura la famiglia reale dei Romanov.
I Romanov sono entrati davvero nella storia personale di Alfonsina, che si esibì in una riunione ciclistica a San Pietroburgo davanti a loro. La fine tragica cui vennero destinati (non è un giudizio storico, ma di natura umana) non può non aver influito nell’animo di Alfonsina, così come le morti meno altisonanti di cui fu testimone. Per quello ho voluto che il loro ricordo (i loro “fantasmi”) l’accompagnassero anche dopo il 1917.
Che rapporto hai con lo sport, al di là della narrativa?
Come dicevo precedentemente, sono un’appassionata di sport. Mi emoziona, mi scuote, mi calma, mi esalta, mi fa sentire più sconfinata. Uno dei principali motivi è dato dal fatto che, mentre l’atleta corre il più forte possibile, cerca di saltare più in alto o attraversa un campo con la palla incollata al piede, io vedo l’essere umano che si confronta coi suoi limiti fisici e mentali. E questo non smette di commuovermi.
Quando Usain Bolt ha abbassato a 9’ e 58” il record dei 100 metri, non ci ha detto che solamente lui poteva farlo, ma che l’umanità intera ha nel DNA la capacità di farlo. Una velocità impensabile solo fino a dieci anni fa. Ha ribadito che l’essere umano si sta espandendo, non solo mentalmente, nel rapporto con la scienza, ma anche nel corpo. In quella che consideriamo la sua parte “mortale”.
Sembri un’autrice praticamente instancabile, pubblichi molto e sempre opere originali e di qualità, come fai?
Dopo il primo romanzo, confortata dall’esito che aveva ottenuto, ho scelto di continuare a scrivere. Di farlo per “lavoro”, intendo, con tutta la fatica e le difficoltà che possiamo immaginare in una quotidianità in cui nessuno, o quasi, legge più. Per tornare a quanto accennavo prima, potrei dire che ho dovuto “rinunciare” a molto. Non è vero. Ho scelto. Ho preferito rischiare e darmi un’opportunità.
Questa scelta mi dà modo di dedicare alla scrittura tutto il tempo, l’energia, la curiosità di cui dispongo. Di sperimentare, sbagliare, ritentare, rifare meglio.
Certo, se le case editrici non mi pubblicassero, sarebbe un lavoro inutile. Però credo che gli editori si rendano conto se e quanta serietà mettiamo in questo mestiere, quanto crediamo in noi stessi, e siano più disponibili all’ascolto, a condividere e sostenere “il rischio d’impresa”, per usare un termine apparentemente improprio.
E poi ci sono i lettori, che sottostimiamo troppo spesso, mentre invece sono più pronti alle sfide e alla “sospensione dell’incredulità” di quanto immaginiamo, e sono lieti di venire trasportati, ad affacciarsi su mondi prodotti dall’immaginario degli autori. Ci vengono a scovare nelle librerie, nelle biblioteche, estenuati dai “capolavori” strombazzati ogni minuto e dall’ennesimo “libro necessario”.
Sono disposti a giocare un gioco con regole diverse.
Se non ci fosse il riscontro dei lettori, i nostri libri non ci sarebbero. Le case editrici non continuerebbero a pubblicarci dopo l’esordio.
A ciascuno di loro, va un grazie infinito.