Quando ho incontrato per la prima volta Mietta Timi una cosa era certa: aveva una storia da scrivere. E non era affatto una storia semplice, si sviluppava in due epoche diverse, gli anni ’70 e il Duemila, era ambientata in Grecia, raccontava un incrocio di vite tra una madre e una figlia. Storia, cronaca, politica, economia e sentimenti fondamentali si mescolavano tra loro. Inoltre, cosa rara tra le narrazioni contemporanee, una parte dell’azione si svolgeva nei corridoi dell’Unione Europea a Bruxelles. Insomma, la storia c’era tutta, l’autore aveva solo bisogno di incanalare la sua energia in uno stile convincente che trasformasse questa creatività magmatica in un romanzo. Talvolta il lavoro in una scuola di scrittura è solo quello di permettere a chi può di raccontare ciò che vuole comunicare ai suoi lettori. Infine il romanzo c’è, è diventato un libro appena pubblicato, s’intitola La scelta migliore (Bertoni 2022). E oggi ne parliamo con Mietta Timi, che ci guarda attenta da dietro i suoi occhiali sotto una folta chioma rossa.
Perché hai scelto di raccontare questa storia?
È difficile centrare bene le ragioni per cui ci si mette a raccontare una storia, diciamo che per me sono state essenzialmente due: la più forte direi che era la rabbia , nel 2014, ancora di più nel 2015, ero furiosa per come il mondo intero giudicava la situazione del popolo greco, colpevole di essere vissuto al di sopra delle proprie possibilità, perché infingardo, truffaldino e così via. Trovavo insopportabile il disprezzo che in tanti esprimevano, al limite del razzismo. Avrei voluto trovare un modo per controbattere. L’altra ragione è stata che, a forza di rimuginare, hanno cominciato a delinearsi nella mia testa alcuni personaggi, prima di tutto Stella, funzionaria della Commissione europea, cioè una che conosceva le cose dal di dentro. E poi alcune situazioni immaginarie, ma verosimili. Più passava il tempo e più occupavano i miei pensieri. Mi ossessionavano addirittura. Alla fine mi sono messa a scrivere, ma il risultato finale non mi ha convinto. Da lì la decisione di rivolgermi alla scuola, una scelta che è stata determinante. Naturalmente quel progetto è diventato un’altra cosa, perché, si sa, le storie poi si animano e vanno per la loro strada.
È anche una storia di ragazze e ragazzi, prima negli anni ’70 poi negli anni 2000. Come sono cambiati, secondo te?
Se qualcuno mi avesse fatto questa stessa domanda un paio di anni fa avrei risposto che non ne avevo idea, perché gli ultimi giovani con cui avevo avuto a che fare erano stati gli attuali quarantenni. Poi c’è stato il movimento per il clima e mi sono messa a guardarli più da vicino. Naturalmente stiamo parlando ora come allora dei giovani più attivi, di quelli che si confrontano con ciò che accade e che, quando scoprono come vanno davvero le cose del mondo, si ribellano e vogliono cambiarle.
In questo senso direi che trovo molto simile l’indignazione, direi quasi l’incredulità, per essere stati ingannati dagli adulti. Se si viene educati fin da bambini a credere in certi valori di onestà, bene comune, verità, e poi si scopre che ciò che muove il mondo è altro, non si può che essere arrabbiati per tanto cinismo. Poi le modalità con cui si esprime questa rabbia sono molto diverse, diciamo che quella della mia generazione era più melodrammatica e aggressiva, quella attuale mi sembra più segnata da disillusione e disincanto, ma al tempo stesso più realistica e costruttiva.
E i rapporti di coppia?
Questo è più difficile. D’impulso direi che, almeno apparentemente, i rapporti siano più spontanei, più equilibrati, meno tortuosi e cervellotici. Anche le coppie omosessuali sembrerebbero avere queste caratteristiche. Direi che i ruoli maschile e femminile siano meno irrigiditi dagli stereotipi del passato. Poi però mi vengono in mente i casi di bullismo e di revenge porn, casi certamente limitati, ma esistono anche numerosi casi minori, quelli che non finiscono sui media, e mi chiedo se proprio i cambiamenti intercorsi non potrebbero avere scatenato la paura di essere liberi. Mi domando se non siano una spia di disagio o peggio di una conflittualità contenuta, ma sempre presente tra i sessi. Alla fine mi viene da dire che, sebbene in generale i rapporti di coppia appaiano più schietti e liberi, tuttavia si mantengano ancora angoli oscuri in cui sopravvivono pregiudizi, e antichi stereotipi, dettati da quella paura.
Cosa ti lega alla Grecia?
Banalmente potrei dire che tutti abbiamo una relazione profonda, più o meno consapevole, con la Grecia. Il mio legame personale però, l’attrazione che sento per questo paese dove vivo alcuni mesi all’anno, è il suo essere contiguo e insieme altro da noi. È un mondo, specie quello cretese, che conosco meglio, in cui la gente, le consuetudini appaiono al primo sguardo, molto vicine a noi, ma, al tempo stesso, se non ci si ferma alla superficie affiorano componenti che rinviano all’oriente, all’eterna nostalgia dell’Asia Minore e di Costantinopoli. Difficilmente ho sentito chiamare questa città con il suo nome attuale di Istanbul. Voglio dire che, aldilà degli stereotipi sulla Grecia classica, culla della cultura occidentale, quello che mi affascina è il grande rimosso della componente levantina mediorientale, la mescolanza di culture, la terra di confine tra oriente e occidente. E questo è specialmente presente nella musica che, infatti, occupa uno spazio rilevante nel mio romanzo.
Secondo te c’è qualcosa che unisce i due periodi della storia greca in cui ambienti la tua storia?
Non sono sicura, ma di comune, secondo me, c’è l’idea che il popolo greco dovesse essere rieducato, rimesso in riga. Naturalmente il colpo di stato del 1967 aveva ragioni più complesse, legate al suo passato, c’erano in gioco interessi internazionali, specie angloamericani, soprattutto era la soluzione violenta ai tentativi di alcune forze politiche e sociali di arrivare a una piena democrazia. Tuttavia la giustificazione accreditata, cara da sempre alle destre estreme, era l’idea che il popolo greco non fosse maturo per la democrazia e avesse bisogno di essere guidato e educato. Fatte le debite proporzioni, anche nelle misure imposte dall’Eurogruppo e dal Consiglio UE, c’era l’idea che i greci avessero bisogno di essere “rieducati” e riportati sulla retta via del rigore.
Dal regime dei colonnelli la Grecia è uscita con la libertà, come verrà fuori dalla crisi economica?
Una domanda molto difficile. Posso dire che anche dal regime dei colonnelli si è usciti faticosamente. Basti pensare che Panagoulis non fu ucciso sotto la dittatura, ma due anni dopo la sua fine, nel 1976. Ci sono voluti altri sette anni, dopo i sette di dittatura, prima che si potesse parlare davvero di libertà. Tanto è vero che esiste uno specifico termine “metapolitefsi” per definire la transizione democratica, che alla lettera significa cambio di regime.
Quanto alla crisi economica, la Grecia ci è ancora pesantemente dentro. Anche se c’è stato un momento in cui si è tentato di ottenere dalla UE la ristrutturazione del debito, che sarebbe stata l’unica via d’uscita, nonostante i ripensamenti dei paesi più intransigenti, non si è mai arrivati a quel risultato. Ora, con l’attuale governo, stanno tornando i mali di sempre, prima di tutto la corruzione.
Oltre a ciò, due anni di pandemia hanno ridotto il turismo, fonte principale del Pil e ora la guerra completerà l’opera. Purtroppo sono molto pessimista, forse non ci saranno più gli scontri drammatici con l’UE, ma nemmeno svolte positive nel breve periodo.
Ti concentri sul rapporto tra una madre e sua figlia. È una relazione che ti interessa particolarmente?
Direi di sì, mi interessa parecchio. D’altra parte è una relazione tra le più studiate e approfondite sia dalla psicoanalisi, che dalla antropologia, come anche nella riflessione femminista.
Molto spesso il rapporto tra madre e figlia può essere complicato dalle pretese della madre di creare qualcuno a propria immagine e somiglianza che possa riscattare le frustrazioni subite e dalle paure della figlia di essere inadeguata, oltre che da una sempre latente competizione.
Nella mia storia ho tentato di raccontare, in una situazione complicata da circostanze assai delicate, il conflitto e le difficoltà dell’incontro tra una madre e una figlia che stentano a riconoscersi nel loro comune essere donne. Mi dispiace, se cado nella retorica, ma, alla fine, per rendere possibile il loro ritrovarsi, dovranno guardarsi dentro impietosamente e attraverso la sofferenza riscoprire il linguaggio comune dei sentimenti, dell’amore.
Certe cose sono troppo dolorose per raccontarle?
In assoluto non so. So che qualcuno sostiene che se dovesse raccontare certe circostanze e situazioni di grande sofferenza, sarebbe esattamente come riviverle, come se si ripetessero, provocando altrettanto dolore di quando sono state vissute. Questo, senza che se ne tragga beneficio né per chi le ha subite in prima persona, né per chi ne viene coinvolto affettivamente.
Poi naturalmente dipende anche dalle conseguenze che sapere o non sapere potrebbe comportare, non credo che ci sia un unico comportamento.
Ti interessa di più la realtà sociale o la narrazione dei sentimenti?
Direi, entrambe. Il mio sforzo è rivolto a cercare di tenerle insieme e di raccontare storie di persone che siano ben collocate e definite dal contesto e dalla realtà. D’altra parte credo anche che nessuna realtà sociale possa essere raccontata davvero, se si prescinde dalla narrazione dei sentimenti di chi ci si trova a vivere. Non so se, in questo caso, ci sono riuscita, perché è abbastanza difficile, ma resta il mio impegno e non potrei fare altrimenti.
C’è qualche autore di letteratura che consideri importante per la tua formazione e al quale fai riferimento quando scrivi?
Distinguerei. Riguardo alla mia formazione, a parte i classici, per una ragazza dei miei tempi, sono state fondamentali Natalia Ginzburg, ma soprattutto Simone de Beauvoir. In seguito Antonio Tabucchi è stato a lungo ed è ancora lo scrittore italiano che amo di più.
Negli ultimi anni, tra i tanti autori, mi ha molto colpito Javier Cercas, ma la mia scrittrice del cuore, capace di coniugare sentimenti e realtà sociale, è Almudena Grandes, purtroppo morta da poco. Naturalmente non mi sogno nemmeno di scrivere così, ma resta un mio modello.