Quella gente è la versione italiana dell’ultimo romanzo scritto da Chico Buarque de Hollanda dopo il Premio Camões. Gentarella, per me che vivo a Roma, racconta bene il senso del titolo originale Essa gente, quella cioè che farà sempre e solo da sfondo alla vita del protagonista. Al centro della scena del romanzo c’è, infatti, un bianco di mezza età, residente in un ricco e decadente quartiere di Rio de Janeiro, scrittore dalle emozioni e dalla creatività congelate, autore di un romanzo storico, L’eunuco della corte reale, grande successo editoriale negli anni novanta. Mentre Duarte scrive il romanzo in cui racconta di sé, della propria storia di ossessioni e di vie d’uscita sbarrate, noi leggiamo la vita stessa del protagonista. Duarte si esprime con stile asciutto, distaccato e sarcastico, in piena osservanza dei canoni e delle regole della narrativa contemporanea e dei nuovi cliché brasiliani, ansiosi di omologarsi, smaniosi di conformarsi all’ultima moda vigente pur di riscuotere la propria parcella di successo. Chico, con estrema sottigliezza, fa il verso a una narrativa metaletteraria, algida, desolata e desolante senza rinunciare a una critica sociale evidente, seppure capace di sottrarsi a critiche di ideologismo. Quella gente è la prima opera narrativa, autorevole e di riconosciuta qualità, a ritrarre le buie realtà sociali e affettive dell’oggi distopico della politica bolsonarista.
Duarte è il ritratto di quella parte della classe media brasiliana che, pur credendosi e dichiarandosi progressista, va in giro armata, e ostenta pregiudizi e visioni convenzionali sia nel parlare che nelle scelte quotidiane. Le disuguaglianze della città, filtrate attraverso le lenti dell’apatia di Duarte, non sono che scenari e panorami delle sue passeggiate, visione laterale e periferica. Nulla distoglie lo scrittore dalla propria litania autoreferenziale, dal cieco dibattersi in vicoli ciechi sentimentali, dal blocco creativo, dai propri dilemmi. Duarte, che risiede nel quartiere nobile e decadente di Leblon, frequenta tanto la favela di Vidigal quanto il Country Club, a cui accede grazie al cognome che ha ereditato e alle amicizie che coltiva. Al suo vagare di “scrittore ambulante” fa da sfondo un’umanità sofferta, fatta di portieri e badanti invisibili nei condomini in cui lavorano, lavoratrici domestiche e bambinaie che non sanno a chi affidare i propri figli mentre si occupano dei figli di altri, autisti, ragazzi addetti alle consegne di ordinazioni effettuate tramite applicativo. Tutta quella gente, per lo più di colore, che non è considerata gente da chi si crede élite. Mentre Duarte si affligge con le sue inadeguatezze, tutto intorno a lui vediamo un quadro di efferatezze che, seppur normalizzate nella sua mente, restituiscono il ritratto di una città che collassa sotto il peso di dolori, disuguaglianza, violenza, razzismo. Il sipario si solleva quanto basta per lasciarci scorgere misfatti e colpe, così come avviene quando il suo cordiale amico avvocato Fúlvio Castello Branco, pochi istanti dopo avergli offerto generosamente sostegno, prende a calci un senza tetto che si è riparato sotto la tettoia del Country Club, o quando un cane dell’ex-moglie di Duarte divora un quotidiano che riporta la notizia dell’uccisione di un musicista negro colpito dalla polizia con cinquanta pallottole. Duarte annota la gravità e la densità tragica dei fatti – la favela, la violenza, l’ insoddisfazione sociale che spinge la ex-moglie Maria Clara a traferirsi a Lisbona – con un distacco e un’indifferenza che banalizzano il male e la violenza efferata. Il suo sguardo sottrae senso a quanto avviene intorno e la sua distanza segrega il dolore in uno spazio mentale minimo, marginale. Il tono sarcastico di Duarte si incrina e la narrazione si fa più coinvolgente quando entra in scena Rebekka, un personaggio femminile forte, come accade di frequente nell’opera di Chico Buarque.
Duarte, che conserva il sogno di sedurre e affascinare attraverso la sua scrittura, si è abituato, dopo la presentazione dei suoi libri “a lasciare quegli eventi accompagnato”. Anche se “nelle sue avventure galanti non tutto era rose e fiori. Non sempre la sua figura in carne e ossa riusciva a corrispondere alle aspettative delle lettrici esigenti, ammiratrici della sua figura letteraria.”
Rebekka è la compagna di un bagnino, Agenor, che dopo aver salvato dall’affogamento Duarte ne è diventato amico. La ragazza olandese, che si è trasferita nella favela del Vidigal per stare con Agenor, insegna inglese nella favela, cura l’orto comunitario, adora i libri, il film Orfeu negro e soffre di violenza domestica. Rebekka scuote la passività e la sfiducia dello scrittore nella propria capacità di reinventarsi. Gli andirivieni tra Leblon e la favela sembrano rianimare la vita immobile di Duarte, dotare di senso possibile la sua giornata e pure il ritmo della narrazione prende impulso.
“Ho avuto appena il tempo di cambiare il pigiama con degli abiti più o meno puliti e le ho aperto la porta vergognandomi del mio stato, occhiaie profonde, la barba da fare e i denti ingialliti dal caffè, Credo, tuttavia, di aver corrisposto all’immagine che Rebekka si era fatta di uno scrittore in trance, perché si era mostrata desolata di aver interrotto il mio processo creativo. “(…) Lei stentava a credere che avrei aperto il portatile davanti ai suoi occhi. Quando l’ho acceso, è comparsa sullo schermo una delle mie pagine più recenti, casualmente proprio quella in cui il narratore sogna Rebekka nuda nella piscina”
Il finale, coerente con lo spirito del romanzo, conserva il suo tono disincantato e aspro, in assonanza con la visione del mondo e le motivazioni profonde del protagonista. Il romanzo, per la gran parte in forma epistolare, contiene pagine di diario e alterna capitoli di flusso di coscienza ad altri composti da articoli di giornale, documenti legali, e perfino da testi scritti da personaggi diversi da Duarte. Questo procedimento straniante e caleidoscopico è definito dallo stesso Chico Buarque “onirismo desperto”, onirismo desto, una specie di sogno lucido.
Colpisce la profonda differenza di temperatura tra la narrativa di Chico Buarque de Hollanda e lo stile e il tono del suo lavoro poetico, di costruzione dei versi delle sue canzoni. La freddezza quasi oggettiva dello stile dei romanzi riflette la natura dei protagonisti, tutti esponenti della borghesia, in crisi di identità, demotivati, svuotati di orientamento e di senso. Atmosfera che contrasta con i toni caldi, la passione e la vitalità coinvolgente, l’intensità, accentuate sì dalle armonie, dal ritmo musicale e dalla metrica curatissima, ma scaturite dalla natura stessa e dagli affetti dei personaggi, per lo più lavoratori modesti, muratori, venditori ambulanti, ragazzini di strada, prostitute, travestiti, e attimi felici o infelici, colti dalla vita amorosa, tutti sempre coinvolgenti e evocativi anche quando in chiave ironica o addirittura sarcastica. Lo stile delle canzoni, spesso secco, asciutto e urgente, malgrado la gradevolezza dell’ascolto, conserva un potente impatto.
Un’associazione spontanea lega Essa Gente a una recente canzone, As Caravanas del 2017, che racconta la reazione dei residenti della zona sud carioca, che comprende Copacabana, Ipanema e Leblon, all’invasione di “ carovane” di gente povera che arriva dai quartieri popolari a godersi un bel giorno di sole, in cui tutto è azzurro, il mare turchese…
In questa incisione il rapper Mike accompagna Chico con vocalizzi che imitano le percussioni brasiliane.
“Non c’è barriera che trattenga questi strani suburbani,
tipo mussulmani di Jacarezinho
(…)
che mimetizzano coltelli e lunghi pugnali
in costumi slargati e calzoni deformati
dice che hanno un pene enorme
e uno scroto che è una granata
le loro schiene nere e nude
mettono in agitazione
le persone per bene
e giudiziose
che chiedono aiuto
alla polizia perché
li rimandi indietro
quella gente nella favela
il sole, la colpa deve essere del sole
negri ammassati nella stiva
delle caravelle in alto mare
(…)
Grida più forte
Figlia della paura, la rabbia
È madre di vigliaccheria