Leopoldo Carlesimo scrive, perlopiù in forma di racconto, da tanti anni, ne sono testimoni i libri che ha pubblicato fra cui Baobab e l’Alaji entrambi pubblicati dall’editore Gaffi … – ma non ha mai avuto, nel corso della sua vita, molto tempo da dedicare all’attività letteraria, per il suo lavoro di ingegnere cantierista di dighe, strade, ponti all’estero che lo ha sempre impegnato in modo totalizzante ed esclusivo direi.
Che cosa ha rappresentato per te la scrittura, in questi anni, mentre esercitavi il tuo primo mestiere? Che ruolo aveva nella tua vita di cantierista? Questa è una cosa che non viene fuori per niente dai tuoi racconti, Come facevi materialmente a scrivere… dove? Quando? Forse ai lettori della nostra rivista può interessare. Questa intervista vorrei farla più su te come scrittore che proprio sul libro.
Quando lavoravo nei cantieri avevo effettivamente pochissimo tempo per scrivere, più che altro nelle poche ore lasciate libere dal lavoro, qualche sera, in alcuni weekend e poi nei giorni di ferie. Il mio rapporto con la scrittura, e anche con la lettura, è stato in quel periodo intermittente, rarefatto, interrotto da lunghe pause. Anche per questo, probabilmente, mi sono orientato verso la forma racconto, perché è ovviamente più facile da affrontare potendosi dedicare alla scrittura solo per brevi periodi discontinui. Poi però, nello scriverli, ho apprezzato sempre più la forma racconto in quanto tale. La sua sintesi, la sua incisività e anche la sua onestà – nel senso di minore esigenza di finzione per tenere in piedi la costruzione narrativa – mi hanno attratto. Anche oggi, che ho molto più tempo per scrivere avendo smesso da quasi due anni di lavorare come ingegnere, preferisco il racconto al romanzo, scrivo quasi esclusivamente racconti.
Tu hai cominciato nel segno della scrittura critica, della critica d’arte – lo racconti un po’ in un bel racconto un artista esploratore a Livingstonia, un racconto autobiografico atipico di questa raccolta, – e a narrazioni di stile rarefatto, mi pare di ricordare. Poi sei passato bruscamente a una qualche forma di realismo, un realismo del corpo, di personaggi, di situazioni, di destini, spiega meglio se vuoi, quando hai cominciato a scrivere di cantieri. Raccontaci se vuoi questo passaggio, come è nata la tua scrittura? quale esigenza la muoveva? Come è cambiata nel tempo? Quanto è stata influenzata dall’ambiente?, dal lavoro? Dai libri?
Ho cominciato a scrivere da ragazzo. All’inizio, come credo per tutti, l’impulso è nato dalla lettura, dai libri che leggevo, congiunta a una certa inclinazione all’introspezione adolescenziale. Il cambiamento effettivamente c’è stato, ed è stato in primis un cambiamento di vita, d’esperienza, che si è poi riflesso nella scrittura. È avvenuto quando sono partito per andare a lavorare nei cantieri all’estero, poco prima dei trent’anni. Fino ad allora la mia vita da studente con qualche aspirazione intellettuale – in parte come ricordi esercitata nel campo delle arti visive e solo marginalmente in tentativi letterari – era poco radicata nella realtà e anche poco attenta a esplorarla, più attratta da questioni concettuali o astratte. L’esperienza di lavoro nei cantieri e poi dei cantieri in Africa ha per me rappresentato una potente iniezione di realtà, e anche di curiosità per il reale, che si è riflessa in un cambio di orientamento nella scrittura. Ho trovato una materia di cui mi pareva avesse senso scrivere, o che esigeva di essere scritta, e questo ha portato a un approccio molto più realistico, materiale e corporeo alle cose e al modo di raccontarle.
In questa ultima raccolta, Perimetro Kuhn (Iod) raccogli la tua ultima produzione in quindici racconti che parlano di dighe – questo il filo conduttore – dighe costruite in paesi lontani, Africa, Caucaso, Nuova Guinea da grandi compagnie occidentali… I personaggi in gioco sono sempre europei, italiani, che vanno nel luogo per costruirle, quelle grandi opere, e i nativi che sono lì da generazioni e rappresentano il grosso della mano d’opera che verrà utilizzata. Due culture molto diverse, dunque, costrette a convivere nello stesso luogo, attorno all’edificazione di un’opera che modificherà profondamente l’ambiente, da un punto di vista geografico, economico, sociale.
I personaggi di Carlesimo, sono tratteggiati con esattezza antropologica, e sembrano interpretare una morale altra rispetto alla nostra, a quella occidentale. Una morale che gode ancora dei privilegi coloniali e postcoloniali, ma riesce ad esprimere anche una qualche forma di innocenza grazie alla pietas con cui l’autore li ha dipinti. Penso al personaggio di Mol, generoso e coriaceo capocantiere, con il mito del lavoro, presente in diverse storie (c’era anche in Baobab) quasi un personaggio-totem della raccolta. In Cronaca di un commiato lo troviamo ormai malandato e claudicante, al suo paese d’origine, nel bellunese, che incapace di riadattarsi alla vita italiana, – questo lo dico per i lettori, decide di farla finita, impiccandosi a una trave del soffitto. Ma lo troviamo anche in Vajont fra i più belli. In cui la sua figura viene ricostruita a poco a poco, a ritroso, nel corso del suo funerale, cui partecipano tre suoi ex colleghi di cantiere, fra cui il narratore.
Ti sappiamo un grande lettore, Leggi molti racconti, leggi più racconti o romanzi? Quante ore leggi in una giornata. Parlaci se ti va delle tue letture?
Credo di leggere in egual misura racconti e romanzi. Ma, certo, ho sempre almeno un libro di racconti in corso di lettura, è la forma narrativa cui mi sento più incline e quella che cerco di praticare. Da ragazzo e da studente leggevo molto, avevo molto tempo per farlo. Poi per molti anni, durante il lavoro da ingegnere, anche la lettura come la scrittura si è diradata, è diventata più intermittente ed episodica, non avevo tempo. Da un paio d’anni a questa parte, da quando ho lasciato il lavoro da ingegnere, ho ricominciato a leggere molto, parecchie ore al giorno. Narrativa, ma non solo. Leggo un po’ di tutto, saggistica, storia, testi teatrali, filosofia, classici.
Il tuo è uno stile che costeggia anche la forma del reportage narrativo, storico-giornalistico, del saggio, del racconto di viaggio…. Con il punto di vista che si allarga, si allontana, si oggettivizza… mentre in altre parti vince una rappresentazione molto drammatizzata e personalizzata in personaggi tipici, simbolici della vita di cantiere, anche se tratti dall’esperienza reale … qual è il tuo punto di vista di scrittore nei confronti della realtà… che cos’è per te la realtà. quanta finzione romanzesca (fiction) ti concedi nei tuoi libri? I tuoi alter ego quando sono presenti sono raramente protagonisti, un tema che mi incuriosisce molto, preferisci metterti di lato quasi come uno specchio riflettente dei personaggi… ti va di parlarci delle tue strategie narrative?
Sono diverse domande. Alle prime, riguardo alla forma narrativa e allo stile, risponderei così: io credo che le categorie stilistiche, formali (romanzo, racconto, reportage, saggio, etc.) o di genere (racconto di formazione, noir, racconto storico, di viaggio, etc.) siano utili, aiutano a classificare, ordinare, capire certe cose; ma sono sovrastrutture, non sono essenziali alla scrittura. A me interessa la scrittura in quanto tale, la parola scritta come mezzo per penetrare la realtà, rappresentarla o provare a capirla. Da questo punto di vista sono aperto a varie forme narrative e a vari stili, e per questa ragione sono incline a mescolarli, anche nello stesso racconto o ad alternarle in racconti successivi. Non ho, se vuoi, un rigido credo estetico o di poetica in questo senso. Quindi anche nello stesso racconto mi capita di inserire parti vagamente saggistiche, tratti di reportage, pezzi più drammatici o intimisti, etc. Comanda l’oggetto della narrazione, produce la forma con cui mi sembra di afferrarlo meglio.
Quanto poi alla finzione narrativa, non credo alla scrittura come invenzione svincolata dalla realtà, per questa ragione – penso – non amo quasi nessun genere di fantasy, la fantascienza per esempio; salve alcune eccezioni, in genere non amo i libri troppo costruiti, a meno che la costruzione non sia funzionale a rappresentare più efficacemente il suo oggetto; e non amo la scrittura virtuosistica o autoreferenziale o citazionista o che si presenta come gioco. Per me la costruzione narrativa e drammaturgica deve avere un solido aggancio con una realtà che la giustifichi e in qualche misura la richieda.
Infine, i miei protagonisti, che raramente sono me… Per carattere, non amo interpretare ruoli da protagonista. Preferisco, come dici, mettermi di lato o dietro le quinte. Il fatto che poi questo elemento caratteriale si trasferisca nella scrittura sotto forma di espediente narrativo che mi fa fare da specchio riflettente nei confronti di altri personaggi, credo sia una conseguenza.
Quali sono, sono stati, i tuoi autori di riferimento per la scrittura di questi racconti? Chi ti ha influenzato di più? Questa mi rendo conto già mentre la scrivo che è una domanda idiota. Detta così. Andrebbe articolata meglio.
Distinguerei tra scrittori amati, che sono tanti, e, anche tra i più amati, spesso lontani dal modo in cui io sono portato a scrivere; e gli autori, in numero molto più limitato, che penso abbiano influenzato la mia scrittura, quelli presi in qualche modo a modello. Tra i secondi, un riferimento costante è l’Hemingway dei 49 racconti. Poi, tra i più recenti Alice Munro e tra i più lontani, soprattutto per certe tematiche, Conrad. Tra gli italiani, direi soprattutto Bassani e Fenoglio.
Il tuo lavoro di cantierista all’estero ti ha fatto viaggiare molto, in tutti i continenti, conoscere tanti paesi tante culture diverse, popoli, mondi… qual è secondo te il posto più bello per viverci? Ti è mai venuto mai in mente, per esempio, di trasferirti in Africa, o in Estremo oriente?
No, non ho mai pensato davvero di trasferirmi definitivamente in un paese diverso dal mio. Anche se nel primo periodo di lavoro all’estero, quando ero stabile nei cantieri, sono stato via dall’Italia pressoché ininterrottamente – se si eccettuano brevi periodi di ferie – per quasi dieci anni, perlopiù in Africa. Ma anche in quel periodo, ho sempre saputo che sarei tornato. E, devo dire, l’impulso a farlo è poi scattato quando ho cominciato a sentire che dopo una così prolungata assenza stavo cominciando a perdere le radici, si affievoliva il legame col mio paese, quando ci tornavo mi sentivo un po’ straniero, un po’ divergente, fuori posto. Cosa che, nel mio mestiere, avevo visto in tanti miei colleghi più anziani, che dopo una vita passata all’estero ormai in Italia non ci sapevano più stare. Allora ho sentito che dovevo rientrare. Da allora in poi non ho più lavorato fisso nei cantieri. Ero basato a Roma e seguivo i progetti all’estero, con continui viaggi – viaggiavo moltissimo, per molti anni di seguito ho preso più di cento voli aerei all’anno, una vita molto faticosa – ma con una base stabile nel mio Paese.
Ti piacciono i libri di viaggi? La tua scrittura è sempre molto dettagliata e precisa sui luoghi, la geografia, la tua è anche una scrittura di paesaggi, la storia, ha bisogno di molta documentazione?
Sì, amo molto la geografia. La scrittura sul territorio. Penso che sia parte integrante delle storie raccontate, almeno nel mio caso è così. Non sono solo storie di uomini ma anche di posti. In genere sono posti dove sono stato, quasi sempre per lavoro. E il lavoro da ingegnere, in particolare quello di costruire dighe, obbliga a intrattenere un rapporto interessato col territorio, coi suoi fiumi, il suo clima, le piogge e tutto il resto. Quindi no, non ho bisogno di molta documentazione, non ci sono grandi ricerche documentali dietro, sono perlopiù notazioni sul territorio tratte dall’esperienza.
Spesso i tuoi racconti sono ambientati in Africa. In Burkina Faso, in Malawi, lo abbiamo detto. Come è stata raccontata l’Africa dalla letteratura, dal cinema – non solo italiana – secondo te? “L’Africa ti insegna – ha scritto Doris Lessing – che l’uomo è una piccola creatura, in mezzo a tante creature, in un grande panorama”…
Non conoscevo questa frase di Doris Lessing, scrittrice che ammiro. Ma sì, la condivido. A me l’Africa ha insegnato molto, moltissimo. È stata, come dicevo prima, un bagno di realtà. Una realtà basilare, dura, priva di orpelli, per certi aspetti tragica, ma asciutta ed essenziale e quindi molto pregnante. Un valore di cui secondo me l’Africa è portatrice è la sua primitività, il rapporto primordiale con le cose. L’Africa mette a nudo, elimina forme, sovrastrutture, riporta alla radice. In alcuni bellissimi racconti africani di Doris Lessing secondo me c’è proprio questo. In modo diverso, anche più duro e forse ancor più bello, pure Hemingway lo fa in alcuni tra i suoi racconti migliori ambientati in Africa, e parzialmente anche in Verdi colline d’Africa. Ma questi e altri racconti sull’Africa hanno tutti un grave limite: è l’Africa raccontata da bianchi. Bisognerebbe ovviamente leggere l’Africa raccontata dagli africani. Confesso che questo finora l’ho fatto poco ed è una lacuna che voglio colmare.
Il linguaggio tecnico/scientifico, come va inserito in una narrazione, in che dosaggio, tu sei spesso molto preciso nell’uso delle parole specialistiche dei cantieri, riguardo a strumenti, materiali, mezzi impiegati nella costruzione… ce ne vuoi parlare, certo è un problema che ti sarai posto? Chi legge i tuoi racconti ti aspetti che abbia una preparazione tecnica? a chi pensi quando scrivi, che tipo di lettore?
No, naturalmente, non mi aspetto che chi legge le mie cose abbia una preparazione tecnica. I termini tecnici, perlopiù relativi a opere o mezzi d’opera, inseriti nei racconti, lo sono allo stesso titolo di alcuni termini locali, per esempio africani, cioè per la semplice ragione che fanno parte del linguaggio adoperato nelle vicende reali che danno spunto ai racconti. Spero che non siano un ostacolo alla comprensione. Ad ogni modo, se in parte lo fossero, per attenuarlo ho inserito un glossarietto alla fine dal libro, dove i termini tecnici e quelli delle lingue locali qua e là utilizzati sono spiegati.
Quanto al tipo di lettore… devo dire che non mi sono mai posto esplicitamente il problema: per chi scrivo? Immagino che possano provare un po’ d’interesse per queste storie persone che sono attratte, o non sono respinte, dal diverso, da situazioni, ambienti, luoghi che non fanno parte o non entrano di frequente nell’esperienza quotidiana di chi vive in un Paese europeo benestante, occidentale e relativamente libero come l’Italia. Sono racconti che pongono il lettore in un quadro non abituale, né per esperienza di vita né per conoscenza acquisita attraverso libri o film o la stampa generalmente diffusa. Quindi immagino che ci sia da superare un gradino di disinteresse o di spaesamento dovuto al non consueto.
I tuoi racconti parlano molto di rapporti fra bianchi e neri, con esattezza, per quello che sono, senza ideologismi. … quindi parlano anche di razzismo o comunque di rapporti razziali difficili, in varie forme, a vari livelli, anche in ambito politico-economico… Kapuscinski – il grande reporter polacco, diceva di provare senso di colpa verso gli africani poveri e derelitti: “Non riuscivo, in coscienza – scrive in Ebano – a risolvere il problema della colpa. In quanto Bianco, per loro ero colpevole. La schiavitù, il colonialismo, cinquecento anni di torti subiti erano opera dei Bianchi. Dei Bianchi, quindi anche mia”. Sei d’accordo. Qual è il tuo punto di vista di scrittore? Come ti sei accostato, da bianco, a questo tema?
Ho letto e apprezzo Kapuscinski, ma no, non condivido l’affermazione che hai citato. Devo anzi dire che questo approccio, l’approccio dei bianchi ai neri attraverso il senso di colpa, mi infastidisce. Credo che se fossi un africano lo rigetterei, lo troverei offensivo. Non è un approccio paritario. Arriverei a dire che il senso di colpa, nel bianco, nasce dagli stessi pregiudizi che vorrebbe rimuovere. Non credo che sia un modo equo e nemmeno proficuo avvicinarsi a qualcuno diverso da noi trattandolo come una vittima. Non mi pare il punto giusto da cui partire. Gli africani sono molto fieri. E hanno ragione di esserlo.