«Se ci separò nella vita il destin… anche se lontani noi saremo vicin…» canticchiò la signora Nunziata Gagliardi con la sua bocca sottile.
Era seduta a busto dritto sul sedile arancione della metropolitana e attendeva, placida, suo nipote Antonino. Tra le mani tozze e callose, un po’ artritiche, e il pollice destro calzato da un ditale, teneva un panno di lino e con un filo bianco, inserito nella cruna di un piccolo ago argentato, ricamava ghirigori che avrebbero poi formato la chioma del bambin Gesù. Nunziata indossava una lunga camicia da notte bordata da merletti, i piedi bianchi scalzi poggiavano sul linoleum del vagone. Non si era guardata allo specchio e ogni qualvolta se ne ricordava, con una mano si aggiustava il ciuffo bianco.
Era un giorno importante ed era troppo, troppo contenta.
«… questo nostro amor è grande e non potrà morir».
Non appena le labbra si toccarono per chiudersi e l’ultimo soffio rantoloso si arrestò in gola, la metropolitana rallentò fino a fermarsi. La vecchietta poggiò il panno sulle gambe, infilò delicatamente l’ago tra due lembi, passandosi la mano tra i capelli se li acconciò per l’ultima volta, e attese che quelle due portiere scorrevoli si aprissero.
Al rumore soffiato della loro apertura, anche un piccolo soffietto al cuore si fece sentire. Prima dei rintocchi allarmati, poi il silenzio di alcuni istanti e infine, alla sua vista, ancora quel rullare forte.
Antonino era un giovane di nemmeno trent’anni, labbra carnose fiorite in una radura di barba scura, occhi di bosco con uno sguardo smarrito di chi non conosce cosa accadrà il secondo entrante. Con lui entrò anche il vento di quella corsa che si intrufolò tra le dita della vecchia ghiacciandole le caviglie.
Senza che nessuno li vedesse, e chi poteva vederli?, i piccoli occhi di Nunziata si riempirono di lacrime. Antonino divenne così una figura evanescente, quasi volesse scomparire ancora. La vecchietta allora, con gesti maldestri, prese il fazzoletto di stoffa che aveva custodito nel reggipetto e strofinò via le lacrime. Il panno di lino ricamato cadde a terra, sopra i suoi piedi.
Antonino quando finalmente fu dentro la metropolitana, vide solo il capo di quella anziana signora che a stento riusciva a piegarsi. Così, da gentiluomo, si avvicinò a passo svelto e si chinò per raccogliere il panno.
«Ci penso io, non si preoccupi… ecco, tenga».
Il giovane allungò la mano, porgendo il panno a Nunziata, e così si guardarono per la prima volta in quel giorno.
«Oh, sto sognando…» disse Antonino.
«Tu sei un sogno!».
«Siete veramente voi?… nonnina».
La nonna, quale cara compagna era stata. Quante volte erano stati vicini, seduti sulle seggiole di paglia intrecciata, con un plaid bruciacchiato poggiato sulle gambe e i piedi sul braciere. Nonna Nunziata, con quella pelle ancora morbida, gli occhi gentili e innocenti, e quell’aurea di donna saggia la rendevano una creatura senza età che riusciva a trovare affiatamento anche con un giovane come Antonino.
«Non mi riconosci?»
«Sì, sì, certo che vi riconosco» rispose lui, arricciando un po’ la fronte.
«Quanto sei bello!».
«Anche voi lo siete… ma che ci fate qui?».
Antonino si guardò intorno e solo in quel momento si accorse che la metropolitana era vuota, i vagoni erano sgomberi. C’erano solo lui e nonna Nunziata.
«Sto cercando il nonno…» gli rispose, piegando il panno di lino e riponendolo in una sporta di stoffa.
«Il nonno?».
«Sì, stamattina è uscito di casa presto e ha scordato di prendere la coppola… vedi ce l’ho qui».
E dalla stessa sporta tirò fuori la coppola grigia del nonno. Se la ripose sulle gambe e l’accarezzò come fosse la testa di bambino del nipote. Antonino allora si sedette al suo fianco e, poggiandole una mano sulla spalla, cercò il modo di dirglielo.
«Nonna… nonno Antonio non c’è più… è morto!».
Gli strinse le dita sulla spalla per trasmetterle quella notizia senza troppo dolore. Nunziata smise di guardarsi i piedi nudi e si voltò verso il nipote, ma lasciando che i suoi occhi si perdessero per qualche istante in cerca della verità nella nube dei suoi pensieri.
«Oh…» sospirò. «E dove l’hanno seppellito?».
«Accanto a… dove siete…»
Antonino incespicava con le parole e Nunziata con la testa gli intimava di proseguire.
«Niente, niente nonna… è al cimitero dove sono anche tutti i vostri parenti».
«Mi accompagni?» gli domandò Nunziata.
«Al cimitero? Nonna, ma è al paesino dove siete nata! Ci vogliono almeno tre ore di macchina…».
«Per favore…».
Nunziata guardava il nipote e pian piano spalancava gli occhi, alzando le sopracciglia, osservandolo e andando ben oltre la sua figura, focalizzando immagini che non avevano più senso per lei e che non si sarebbero mai impresse nei suoi ricordi, come se non ci fosse più spazio. La mano destra era chiusa a pugno e premeva con le unghie il palmo lasciando delle macchioline rosse.
Antonino, durante gli ultimi anni di vita di nonna Nunziata aveva imparato a non soffrire più per quelle regressioni comportamentali e a provare solo un’immensa tenerezza. L’ammirava mentre distesa sul letto allungava le braccia, come i bambini, e cercava di afferrare l’aria. Lui immaginava che la nonna potesse vedere cose che lui ancora non poteva vedere. Magari un’aurea magica, colorata, o una distensione dell’atmosfera… o magari cercava solo di afferrare i suoi ricordi. E poi, quando sembrava che Nunziata con quei comportamenti si stesse allontanando sempre di più dal mondo terreno, allora Antonino interveniva e le lanciava un’ancora.
«Nonna?».
Gli occhi di Nunziata parvero rianimarsi.
«Mi volete bene?».
«Sì».
La mano della vecchietta si distese, lasciando tregua al palmo.
«Quanto mi volete bene?».
Nunziata allargò le braccia.
«Tanto, così!».
«Va bene nonna, vi accompagno dal nonno. Fatemi soltanto…».
«Non c’è bisogno, vedi siamo arrivati…».
La metropolitana iniziò a rallentare e una voce metallica annunciò: Prossima fermata, cimitero di Castel di Sopra.
Antonino non riuscì a dire null’altro, cercò per un attimo di stupirsi, ma poi pensò, in fondo, al perché avrebbe dovuto farlo… accanto a lui c’era la nonna viva.
«Aiutami ad alzarmi» gli disse Nunziata.
Il giovane allora mettendosi di fronte a lei, la prese per le braccia e l’aiutò a sollevarsi. Con una smorfia di dolore la nonna riuscì ad alzarsi e mise il suo braccio sotto quello del nipote.
«Andiamo».
Le porte si aprirono palesando un mondo buio. Su nel cielo la luna sogghignante rischiarava un po’ l’ambiente mostrando uno sterrato con numerose rocce, una dietro l’altra. Antonino strinse forte il braccio a sé, inchiodando quello di nonna Nunziata.
«No, no, nonna! Non voglio scendere, non possiamo scendere… restiamo qui dentro!».
«Non avere paura» lo canzonò Nunziata. «Ho una torcia, aiutami a cercarla».
La vecchietta lasciò il braccio del nipote e aprì la sporta che reggeva tra le dita artritiche.
«Vai, prendila!» gli disse.
È tutto un sogno, ripeté nella testa. È tutto un sogno.
Infilò la mano nella borsa di stoffa e dopo aver cercato un po’, afferrò la torcia portandosela davanti alla faccia.
«Fai luce!» intimò nonna Nunziata.
L’accese.
«Sono tombe!».
Antonino non voleva crederci. Davanti a lui, il fascio di luce aveva illuminato quelle che a lui parvero inizialmente delle rocce… ma su di esse c’erano i nomi e le date di nascita e morte dei defunti.
«Lì! Lì!» disse Nunziata indicando un punto davanti a lei. «Ora ricordo… alla fine di questa stradina… è lì mio marito».
«Nonna, siete sicura?».
Nunziata nemmeno rispose, fu lei a trascinarlo giù dalla metropolitana e così insieme poggiarono i piedi sull’erba argentata di quella notte. Ma non appena il giovane affondò il suo piede in quel manto, avvertì una forte puntura all’avambraccio destro. Si arrestò all’istante e chiuse forte gli occhi. La torcia volò via dalla sua mano, ruotando nell’aria e immergendosi silenziosamente in quel mare plumbeo. La nonna si chinò immediatamente per recuperarla, con una destrezza che parve strana ad Antonino.
«Non è nulla… ma forse è meglio che la tengo io».
«Ho avvertito un dolore qui» disse lui toccandosi il braccio, in quel momento ricoperto dalla manica della giacca.
La vecchietta gli puntò il fascio di luce al volto e vide i suoi occhi di bosco impauriti.
«Ti stai solo impressionando, forza… accompagnami».
L’aria di quella sera era immobile, non un filo di vento e l’unico rumore udibile erano i loro passi. Nonna Nunziata aveva distanziato Antonino di pochi metri e adesso proseguiva in autonomia. Il giovane osservava i piedi scalzi di lei, spuntare da sotto la camicia da notte bianca, leggermente sporca di terra. Non sembrava nemmeno di lino, ma di una materia liquida che ondeggiava armoniosamente sul corpo della vecchietta. Proseguivano verso l’albero, quell’enorme pino mediterraneo, e la stradina che portava direttamente a esso sembrava la sua scia. Osservò i piedi della nonna finché non furono sotto al pino e lì Nunziata allargò le braccia e aprì il palmo della mano che non reggeva la torcia.
«Sembra che stia piangendo» disse lei, alzando la testa verso il cielo.
Gli aghi di pino, copiosi, cadevano al suolo, riempivano il palmo della vecchietta e si posavano sui loro capi e sulle loro vesti.
«Non c’è vento, com’è possibile?».
Antonino continuava a grattarsi l’avambraccio e si mise accanto alla nonna attendendo una risposta che non arrivò. Nunziata, come se nemmeno avesse ascoltato le parole del nipote, illuminò una tomba davanti a lei.
«Marito mio» disse in un sussurro, «eccovi!».
Il nipote, però, non guardava la tomba di nonno Antonio. Il fascio di luce aveva illuminato, anche se con meno fulgore, la tomba di sua nonna. Mentre leggeva l’epitaffio, scelto dai suoi genitori su un enorme libro delle pompe funebri, avvertì una pressione al dito indice. Come un piccolo rospo che ti morde il dito, il pulsossimetro si illuminò mostrando la percentuale di emoglobina satura di ossigeno. Antonino, quasi per scacciare via davvero quel rospo, tentò di rimuoverlo, per scagliarlo il più lontano possibile. Tutto fu inutile. Il pulsossimetro restava lì, una cozza inchiodata al suo scoglio. Il giovane ebbe un mancamento, un forte giramento di testa che lo costrinse ad appoggiarsi a una tomba lì vicino. Fece giusto in tempo a chiamare la nonna.
Nunziata si precipitò su di lui, poggiandogli una mano al petto.
«Cuore mio».
Antonino alzò la mano per mostrarle il dito, gli occhi che sbandavano richiamando la pace.
«Respira», disse Nunziata cercando di rassicurarlo, «respira e resta qui… riposati».
«Che mi sta succedendo?».
«Shhh! Non è nulla…».
Ma gli occhi della vecchietta la tradivano. In quella notte buia, oltre alla luna, erano l’unica cosa luminosa.
«Nonna, voi siete morta!»
«Shhh!».
«Quella è la vostra tomba, nonna!».
Adesso anche il viso di Nunziata brillò delle sue lacrime, cadute giù come aghi di pino.
«Non avrei mai voluto doverti cercare… mai avrei voluto smettere di riposare in pace per doverti cercare, e poi trovare per portarti qui…».
«È un sogno nonna, siete morta!» la voce di Antonino fu assorbita dall’aria per scoppiare come una bomba e poi disperdersi di nuovo nel silenzio.
«Magari lo è!» gli disse, «magari è un sogno dove non trovo pace. Non la trovo perché tu non ce l’hai».
Come mille formiche, decine di fili bianchi, alle cui estremità erano attaccati degli elettrodi, fuoriuscirono dal colletto della camicia di Antonino per arrampicarsi sulla nuca, sulla faccia, per arrivare alle tempie e agganciarsi al cranio, adesso bagnato di una sostanza viscida.
«Aiutatemi, per favore, nonna! Vi prego…».
Antonino cercava le mani della nonna, e lei lo aiutò nel trovarle. Nonna Nunziata buttò via la torcia, oscurando il volto del nipote, ma facendo brillare una lapide bianca, senza nome e senza epitaffio.
«Cuore mio, shhh… è quasi finita».
Sulla gola del giovane si formò un taglio, nel quale si infilò con forza una cannula tracheostomica, emersa anch’essa dal colletto della camicia. Antonino voleva urlare, chiedere ancora aiuto, ma l’aria espirata si spegneva all’interno dell’apertura della tracheotomia, senza passare attraverso le corde vocali. Adesso aveva solo i suoi occhi, aggrappati a quelli di nonna Nunziata.
Con le piccole dita artritiche la vecchietta iniziò a sbottonare la giacca di suo nipote. Gentilmente gliela tolse e la gettò nell’erba. Poi gli tolse la camicia. Una flebo era attaccata al polso di Antonino, il suo tubicino era attorcigliato all’avambraccio come l’edera. Sul torace e su tutto il corpo centinaia di altri fili e di elettrodi, come una macchina anatomica che mostrava il suo massiccio sistema artero-venoso. Nonna Nunziata l’aiutò a sollevarsi dalla tomba a cui si era poggiato e lo fece distendere a terra.
«È quasi finita» gli sussurrò all’orecchio. «Sono quasi quattro anni che ti cerco, mi sei sempre sfuggito… solo adesso ti ho trovato, amore mio. Non ce la fai più e ti sei fatto trovare… nemmeno io ce la faccio più. Ho il cuore a pezzi. Io sto bene amore mio, non provo alcun dolore… ho dovuto fingere per farti arrivare qui. Ecco, nemmeno tu sentirai più nulla… è finita».
Dal silenzio emerse il suono di un elettrocardiogramma, dei piccoli suoni ripetuti con costanza.
«Chiudi gli occhi adesso. Non sentirai più nulla!».
Nonna Nunziata, con estrema grazia, gli tolse la flebo e districò quella matassa di fili e tubi. Staccò gli elettrodi dal torace e dalla testa.
«Bravo, amore mio, tienili chiusi, così! Shhh».
I suoni dell’elettrocardiogramma rallentarono, diventando sempre più radi. Nonna Nunziata si distese accanto al nipote, sotto quella pioggia di aghi di pino, e lo abbracciò.
«Se ci separò nella vita il destin… anche se lontani noi saremo vicin…».
La nonna gli tolse la cannula dalla trachea e la piccola ferita si rimarginò all’istante. Il suono dell’elettrocardiogramma divenne uno e prolungato, perdendosi tra i labirinti di quel cimitero che aveva appena donato la pace a un giovane uomo.
«… questo nostro amor è grande e non potrà morir».