I miei lettori della domenica avranno capito che questa rubrica serve a dare voce ad autori interessanti che pubblicano in questo periodo romanzi o racconti di narrativa degni di una lettura più attenta, sia che vengano recensiti con aggettivi roboanti sulle pagine dei quotidiani nazionali sia che restino nella nicchia un poco oscura della propria ricerca personale. Paolo Romano è un giornalista che ha deciso negli ultimi tempi di dedicarsi alla narrativa e ha pubblicato una raccolta di racconti, La formica sghemba (e poteva essere un caso), e un romanzo, Quando cavalcavo i mammut (e allora non è più un caso). Entrambi pubblicati da Scatole parlanti ci presentano una scrittura che non cede alla semplicità talvolta elementare oggi in voga, ma cerca di sedurre il lettore attraverso un uso accurato della lingua e delle parole. Ci è sembrato giusto fare due chiacchiere con lui sul romanzo che ha scritto, una storia che mette al centro della narrazione un personaggio che somiglia a un cinquantenne di oggi, Luigi Giavatto, ma incarna pure un tipo umano molto diffuso nella narrativa novecentesca e non solo.
Al centro del tuo romanzo c’è, mi sembra, un rapporto personale che però sembra diventare universale al giorno d’oggi, quello tra un padre e un figlio.
Il rapporto padri-figli, se vuoi, è il primo dei topoi letterari, la forma archetipica del racconto; dagli omerici Priamo ed Ettore, alla tragedia greca, passando per Turgenev, Bellow e altre tonnellate di modelli letterari. Quindi è a maggior ragione una sfida, perché quando scegli di scrivere su un tema così tipizzato, il rischio di fallimento è esponenziale. Insomma, il genere scelto è già di suo un “padre” e io mi sono posto come “figlio”, che ci si prova a confrontare. La vera domanda, allora, è: perché è così allettante sporcarcisi le mani? Perché, io credo, con la problematizzazione psicanalitica di quel rapporto si sono dotati i narratori di molte “armi” in più. Lo sapeva bene Svevo: ogni scrittore dovrebbe fare un monumento a Freud, perché magari il suo approccio potrà rivelarsi inefficace su pazienti, ma è il Signor Wolf nella gestione delle trame, risolve problemi. I padri e i figli implicano sempre un confronto (universale) tra conservazione e progresso, modelli etici differenti, linguaggi incomunicabili; il tutto complicato dal legame di sangue, per cui quella crepa tra esistenze – che non si può rimarginare per natura – diventa la rappresentazione più straziante e frustrante dell’impossibilità. Ecco, chi parla di padri e di figli, declina in profondo questi due concetti “impossibilità” e “diversità”.
Il lavoro, meccanico, ripetitivo, banale, che compie il protagonista, è una cosa che riguarda solo lui, oppure è il mondo del lavoro che ti appare così?
Il tema dell’alienazione nei processi lavorativi è tornato prepotente negli ultimi decenni. Il mio personaggio aderisce ancora a un modello un po’ “datato”, è un travet anestetizzato dalla burocrazia pubblica, una riedizione dell’“inetto” Zeno e dell’universo narrativo mitteleuropeo. Oggi basta pensare al comparto della nuova logistica, della distribuzione e in generale alle mansioni stravolte dalla rivoluzione tecnologica in corso e non si farà fatica a immaginare una maggioranza di lavoratori-automi, che non avendo sufficienti margini di autonomia nella gestione dei risultati, escono impoveriti intellettualmente. Con l’aggravante che il progressivo allungarsi dell’età pensionabile impedisce ogni progettualità di futuro, alimentando ancora di più lo scontro generazionale.
Si può dire che Luigi Giavatto, il tuo protagonista, sia uno che non sa vivere?
Assolutamente sì. È incapace di prodursi una grammatica dell’esistenza presente, per cui riesce solo a vivere nel suo raccontarsi; una rappresentazione di comodo che, per definizione, segue l’attualità. E questa sua incapacità lo rende inidoneo a relazioni sociali ordinate, se non virtuose. Vivere comporta una responsabilità che gli è del tutto estranea e per giustificare il proprio posto nel mondo si chiude in una onnipotenza autoreferenziale, che prova a mascherare con l’ironia. Non esattamente il modello di “eroe” romanzesco, diciamo.
Secondo te c’è qualcosa che caratterizza i cinquantenni di oggi, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti e seguiti?
Parlare delle generazioni mi spaventa sempre molto, perché si rischia di dire delle banalità imbarazzanti. Nella mia esperienza, che poi è quella camuffata e raccontata nel Mammut, ho osservato, per dirla con uno slogan, che oggi si è acquistata più libertà, ma al prezzo di una maggiore solitudine. L’emancipazione dal modello etico dei “vecchi” ha certamente contribuito a smontare modelli istituzionali spesso fondati su disvalori e ipocrisie (uno su tutti, la famiglia ad ogni costo, come totem intangibile). L’affermarsi, ancora oggi faticoso, di diritti e soprattutto di nuovi modi di pensare rende assolutamente legittimo un approccio più onesto a ciò che si vuole dalla vita, ma forse, a furia di cercare la “felicità” si è trovata la solitudine. Un benessere determinato dall’assenza di conflitto esterno, dover render conto solo a sé stessi.
Il fatto che il tuo protagonista viva da solo, aumenta la sua alienazione?
È proprio questo il punto. All’inizio ci sono delle pagine in cui si spiega il perché il protagonista non è “single”, ma è “solo”. Alla patina un po’ radical dell’anglismo corrisponde, spesso, il senso di paura di smarrire la capacità di governare in modo ordinato la propria vita; diventa più difficile distinguere quando le piccole e grandi manie quotidiane (che ognuno di noi ha) scivolano in qualcosa di più patologico. Più ho esperienza della solitudine, radicando abitudini, meno sono disposto a mediare con chicchessia anche sulle minuzie. Se questo approccio alla vita si mescola al tipo di lavoro di cui abbiamo appena parlato, si produce un cocktail esplosivo.
E le donne che spazio assumono nella vita di Luigi Giavatto?
Le donne hanno un ruolo fondamentale: più lui vorrebbe affermare l’idea che le relazioni e il sesso sia in fondo sopravvalutata nelle relazioni umane, più resta prigioniero di racconti che spesso diventano morbosi, malati quasi. L’universo femminile diventa la cartina di tornasole di tutto ciò che non è in grado di fare; ogni qualvolta tenta la strada di una presunta “normalità” finisce per inventare pretesti surreali per lasciare, con un robusto maschilismo mascherato, le donne che incontra. Più abbandona, più si sente abbandonato e solo.
Nell’esistenza del protagonista c’è una “parte irrealizzata di vita nei cui confronti era più indulgente”. Qual è?
È la parte che riguarda i sogni e la più o meno ostinata caparbietà con la quale ognuno è capace di perseguirli. Il protagonista è uno di quelli che spaventandosi per il “vasto programma” che il suo desiderio gli fa intravedere, preferisce mettere tutto nel cassetto e guardarli come frammenti incompiuti di progetti troppo ambiziosi. Il punto è che, come continua subito dopo il testo, non ha fatto neanche nulla per realizzare il sogno e dunque non saprebbe bene neanche spiegare che parte di sé ha evirato con quella rinuncia a priori. Questo atteggiamento remissivo lo mette in una comfort zone nella quale, tuttavia, resta imprigionato, in balia delle sue piccole nevrosi e convinto che, in fondo, si sarebbe meritato di più dalla vita.
Il padre di Luigi Giavatto ha avuto la fortuna di incontrare un maestro che lo ha “salvato”, diciamo così. È quello che manca oggi, la figura di qualche maestro che ci strappi alla nostra condizione?
Accidenti se manca! Non ho le competenze per ricostruire storicamente dove si è rotto il patto sacro tra maestro e allievo, ma è un danno incalcolabile. Assistiamo tutti i giorni a questa pretesa onniscienza, che per prima cosa si traduce nel distruggere ogni autorevolezza all’interlocutore. I retori nei fori lo chiamavano “argumentum ad ignorantiam”: posso affermare una mostruosità logica e vinco finché tu non mi dimostri il contrario e procedo così fino ad esautorare ogni possibile argomento. Più banalmente, lo vedo nei prodotti a scaffale nelle librerie e in quello che si scrive; quello che manca è una corretta educazione al gusto, trarre godimento dalla disarmante bravura o superiorità di grandi scrittori e dei grandi poeti, sapere che non potrai mai produrre una sola sillaba come loro. Essere allievi è una condizione bellissima, ma richiede umiltà, curiosità, approfondimento e studio; rispettare chi ne sa più di noi come una opportunità da sfruttare al massimo, una benedizione direi.
Quanto c’è di Luigi Giavatto in te? La sua passione per la musica?
Che i personaggi che scriviamo ci appartengano lo trovo inevitabile e, in qualche modo, “sano”, perché è l’unica garanzia di essere veri e leali con il lettore. Si può tentare qualche azzardo di sperimentazione linguistica o di slivellamento dei piani narrativi solo se la materia di cui parliamo la conosciamo molto bene e per questo diamo corpo a tic, vizi e virtù che ci sono propri, per doverli frequentare ogni giorno. Giavatto è, da questo punto di vista, l’espressione dei miei demoni e anche di una quota di paure; poi, come spesso accade (e per fortuna), è diventato un’altra persona rispetto a me, ci siamo guardati con maggior distanza e alla fine le nostre strade si sono separate nel racconto. Alla fine gli voglio un gran bene perché è solo un poveraccio che non ce la fa, che non riesce a vivere e di questo non gliene si può far colpa. E’ un vinto e a me i vinti stanno simpatici per istinto. Però condividiamo l’amore per la musica – jazz, soprattutto -: lui tenta di fare scat, improvvisare con la voce, io ci provo maldestramente con la chitarra; lui ha un correlato musicale per ogni situazione gli capiti e così anche io.
Tu sei un giornalista, che differenze trovi nel passare dalla scrittura giornalistica a quella narrativa?
Bella domanda! Un salutare abisso, sono l’alfa e l’omega. Potrei perdermi in mille dettagli tecnici per rispondere: col giornalismo, lo dico ironicamente, l’ipotassi è guardata come un criminale sospetto, gli aggettivi sono banditi, gli avverbi mutilati, sostantivi solo i più comuni; devi badare ad una asciuttezza che spesso finisce per inghiottire la complessità di un tema, hai uno spazio in pagina definito, un eventuale giudizio va dissimulato dietro una coltre fumosa di circonlocuzioni. La narrativa è di suo una tecnica, ma mi viene in mente quello che Charlie Parker diceva del blues: impara tutte le regole e poi buttale nel cestino. Il foglio bianco dello scrittore non contiene battute cui limitarsi, ma una quota di perizia linguistica e fantasia. Un pezzo di giornale deve raccontare fatti, se lo fa bene (mica facile) ha raggiunto l’obiettivo. Resta il fatto che è un tipo di esercizio utilissimo. Un racconto, ma io amo tutta la postmodernità nel genere, è una specie di frullatore dove una certa versatilità negli stili è utile perché concorre a creare un insieme disomogeneo; in un romanzo puoi trovarti a scrivere pezzi di giornale, epitaffi, prosimetri, lettere burocratiche, frammenti di saggistica. Chi scrive dovrebbe provare a cimentarsi con ogni tipo di linguaggio, alla fine la partita è tutta lì. Tra l’altro è puro masochismo perché, per lo più, si perde.