Avete voglia di leggere un romanzo distopico che somiglia per ritmo e espressività a una serie televisiva alla Black mirror (o per quelli della mia età, alla X-files o Ai confini della realtà)? Vi piacerebbe che fosse anche una critica sociale della nostra situazione culturale, ormai diretta dai Mi piace, dagli influencer e dai social network? Volete anche che invece di raccontarvi situazioni che si sviluppano a New York piuttosto che in una realtà immaginaria, ci racconti come potrebbe diventare una città come Roma in un futuro speriamo molto lontano? Ebbene, un romanzo così c’è. Si chiama cAPPacity e l’ha scritto Mattia Grossi (che l’ha pubblicato recentemente per i tipi della Pubme). La storia comincia con una nuova applicazione da scaricare sullo smartphone, un tipico gioco che all’inizio conquista tutti. Si tratta di assegnare una votazione a chi ci sta vicino. Cinque stelle per i migliori, una stella per i peggiori. Ci giocano tutti, finché non comincia a sorgere la volontà di rieducare chi risulta monostella. In veri e propri campi di prigionia. Non è proprio quello che succede oggi, ma chissà… non è nemmeno un mondo troppo lontano dal nostro. Ne parliamo con l’autore in questa domenica di fine vacanze…
Il tuo romanzo è senza dubbio una critica distopica alla società contemporanea, soprattutto al suo aspetto social. Viviamo in un mondo che ti spaventa?
Sono spaventato più dalle persone che usano i social. Il social network è un mezzo che nasce per mettere in comunicazione persone lontane tra di loro e ne può scaturire un gioviale gruppo di uncinetto transoceanico, come una spietata partnership terroristica fra un eschimese e un congolese. A fare la differenza è sempre, purtroppo, chi spinge il grilletto e non la pistola: i social vengono polarizzati e diventano luoghi in cui imperversano i commenti più feroci, fra persone di qualsiasi schieramento, non importa quale. Si cerca la propria nemesi e gli si vomita in faccia la propria opinione. E questo clima mi spaventa decisamente.
Hai ambientato il romanzo a Roma, in Italia. È una scelta coraggiosa, in genere si pensa a mondi lontanissimi per questo tipo di storie. Perché proprio la nostra società?
Credo fermamente nell’ambientazione italiana delle storie. In Italia ci sono dinamiche sociali, economiche e culturali totalmente diverse da quelle che vediamo in America e in generale nel mondo anglosassone, che sembra l’unico ambiente in cui possano prosperare storie moderne.
I distopici si assomigliano tutti nelle reazioni delle persone, che vengono messe alle strette da cambiamenti repentini e distruttori della società costituita. Mi interessava proprio questo: vedere come reagirebbero gli italiani in un contesto simile. Sappiamo bene come si muovono nelle storie d’amore o in quelle in costume del secolo scorso, o in quei gialli mai cruenti, attenuati da un prete bonario o da una rassicurante suora. Vediamo come si muovono quando vengono distrutte le loro certezze più profonde.
Al centro c’è l’ossessione di rimanere in uno standard per evitare di essere giudicati come dei falliti, degli sconfitti, dei veri e propri esseri inferiori. Secondo te è questo che fanno – sotto sotto – i social, dividono tra vincenti e perdenti?
Sicuramente dividono e lo fanno in un modo sempre bipolare. I social hanno rimosso le sfumature. Non credo che ci siano molti vincenti, se non i quotidiani online che lanciano spesso notizie su argomenti divisivi, dei giganteschi ami a cui abboccano dei pesci ignoranti e ignari. E quelli sono tutti perdenti. A più livelli. Perché non solo si lanciano in discussioni sempre più dure e vuote, ma non si rendono conto di recitare un copione abilmente orchestrato da chi ha creato quel contenuto. Contenuto che esplode di commenti, salta all’occhio dell’algoritmo e diventa una miniera di clic e guadagni per il quotidiano online di cui sopra. E quello dei quotidiani è solo un esempio. Il novantanove per cento delle discussioni sui social va avanti in questo modo ed è una cosa così evidente, che fa rabbia vedere come questi perdenti continuino a urlarsi contro, credendo di cambiare il mondo in qualche modo.
Hai mai avuto la sensazione di essere giudicato non proprio con cinque stelle da qualcuno nella vita vera? È un timore che hanno tutti?
Questa domanda mi permette di riallacciarmi all’ambientazione italiana della storia. Viviamo nella nazione del pettegolezzo e del pregiudizio. Anche accennati, anche fatti e portati avanti con la leggerezza di una puerile chiacchierata. Ma ci piace parlare e spesso parliamo dell’altro. In più culturalmente diamo una posizione centralissima all’individuo, al suo aspetto estetico, al ruolo sociale definito da quanto guadagna, da come si veste e da mille altri fattori. Chiunque deve misurarsi con il giudizio altrui, sia che la cosa lo tocchi nel profondo, sia che non gli interessi minimamente, ma che qualcuno parli di noi è un fatto. Io personalmente non demonizzo il giudizio altrui, perché a volte possono nascere critiche costruttive. Poi se la critica è per il colore sgargiante di una camicia e ci giudicano “meno di cinque stelle” per quello, bastano delle eleganti spallucce.
Credi che la situazione che descrivi sia credibile oppure la ritieni semplicemente uno sviluppo fantastico della tua immaginazione?
Un distopico spesso accelera dei processi, perché di tutte le opzioni si sceglie quella più drastica, sia per una tensione narrativa più efficace, sia per vedere quanto stress può reggere la società prima di accusare il colpo e reagire. In cAPPacity mi sono limitato a esacerbare dei processi già in atto e ancorarla in questo modo alla realtà, perché la domanda di partenza è stata “cosa succederebbe se tutto questo accadesse domani?” e il processo è stato automatico. Mentre completavo questo romanzo, in Cina si dava inizio a un processo di valutazione sociale, con influenze varie sulla vita delle persone e più di qualche amico mi ha detto che stavo scrivendo un romanzo verista! Altro che distopico. Ma non si deve andare così lontano. Il banalissimo Tripadvisor può portare un ristorante sull’orlo del fallimento, se questo ha la sfortuna di ospitare dei recensori troppo esigenti. Poi magari quei recensori sono degli stoici, sacrificatisi per evitarci una sòla e il ristorante è davvero scadente. Ma spesso il confine è molto labile.
Anche la politica è sottomessa alla forza della multinazionale che gestisce l’applicazione, mentre scrivevi hai pensato a qualche caso di cronaca recente?
Parlare di attualità e di un’applicazione che sconvolge la società, senza pensare ai meccanismi di azione e reazione che si innescano nella politica, è semplicemente impossibile oggi. Perché la politica sta dove stanno le persone e i dibattiti e i social fanno il lavoro al posto della politica, confezionando discussioni bipolari, opinioni e proposte su qualsivoglia argomento con tanto di nomi e cognomi. E la politica in questo ambiente recepisce alla grande tutti questi dati, purtroppo o per fortuna.
Recentemente la pandemia ha dato sicuramente un affresco chiaro di questi meccanismi, perché ai dati oggettivi della scienza, la politica rispondeva con soggettive opinioni e si è creato dibattito su argomenti che francamente sembravano indiscutibili.
La tua storia potrebbe essere inserita in una di quelle serie alla Black Mirror, le segui, ti piacciono?
Le amo. Ho cominciato a scrivere cAPPacity nel 2015, fortemente ispirato dai toni e dalle idee rivoluzionarie di Black Mirror. Quando nel 2016 è uscito un episodio in cui il cuore della narrazione era sulla valutazione delle persone ho pensato che il mio romanzo non avesse più spazio. Poi però mi sono detto che l’ambientazione in Italia e altri elementi mi avrebbero portato a un prodotto diametralmente opposto. E così è stato, per fortuna.
Specialmente le prime due stagioni di Black Mirror hanno idee così forti e destabilizzanti, che fanno davvero riflettere su certe fragilità della nostra società, così palesi eppure sottovalutate. Penso all’assenza di educazione digitale fra i giovanissimi, che può portare a cyberbullismo e altre derive di cui spesso le istituzioni sono all’oscuro, o non ne capiscono la reale portata.
Quali erano i tuoi autori di riferimento, mentre scrivevi cAPPacity?
Orwell. Sarà banale, ma 1984 è un capolavoro assoluto, che ha dato al genere distopico più di quello che credesse Orwell stesso mentre lo scriveva. Una storia che narra per sottrazione, senza clamore e con uno stile che guida il lettore verso un baratro sempre più profondo, in cui il protagonista non riesce a far altro che lasciarsi trascinare giù. La società subisce delle variazioni profonde, che sono altrove, che vengono solo accennate e possiamo solo subirle. Non c’è contraddittorio, un tentativo di reazione. Non c’è nulla.
Anche Dick per le atmosfere era chiaramente davanti ai miei occhi.
Poi menziono anche Ammanniti, che ha scritto un libro Che la festa cominci, che non è un distopico, ma ha dato un forte impulso al mio stile e mi ha fatto capire che l’ironia sta bene ovunque, anche nel dramma più spinto. Anzi ne esalta il sapore, come una spezia ben dosata.
Mi sembra che tua scrittura tu dia più importanza all’azione e ai dialoghi che alle descrizioni o agli approfondimenti psicologici riflessivi, sei d’accordo?
Viviamo nell’epoca delle serie televisive, prodotti che hanno la giusta lunghezza per colmare quelle che una volta erano le lacune di un film, quando andava a trasporre un romanzo. Chiaramente il romanzo avrà sempre la sua posizione intoccabile. Trovo però che chi scrive oggi debba tenere conto del fatto che viene letto da chi ai libri ha affiancato le serie televisive o, in alcuni casi, i primi sono stati sostituiti dalle seconde. E allora la narrazione più dinamica e “per inquadrature” può essere la summa fra questi due mondi e dare al romanzo un nuovo respiro moderno. Questa è ovviamente la mia umilissima opinione e il mio stile si è evoluto in questo senso, proprio perché trovo più efficace una narrazione di questo tipo, dinamica e rapida. Ma è evidente che il suo peso lo abbia anche la trama e la gestione degli eventi, perché in cAPPacity ci sono molti stravolgimenti e questo era l’unico stile per raccontarli adeguatamente. Probabilmente se in futuro scriverò cose più votate alla riflessione, adeguerò il mio stile.
Preferiresti tra qualche anno scoprire che avevi torto, e cioè che la società non è mai diventata come quella descritta in cAPPacity, oppure ti darebbe soddisfazione vedere che si è realizzato tutto più o meno come l’hai descritto?
Credo fortemente nella tecnologia e nel suo potere di migliorare la nostra società. Mi riallaccio alla prima risposta: la tecnologia è un mezzo, sta a noi ottenerne solo risvolti positivi. Ciò che succede in Cina mi fa pensare che quanto scritto nel romanzo sia già accaduto e di solito i distopici anticipano gli eventi di un anno, dieci anni, cento anni. Prima o poi qualcosa di simile succede sempre. Perché chi scrive guarda all’oggi e immagina il domani. Spero però che quantomeno nei toni ciò che succede in cAPPacity non accada, perché non sarei pronto a tanta violenza! Ma la storia è quella di una società che va a rotoli, perché un social network diventa predominante e guida il pensare e l’agire delle persone.
Una cosa da cui siamo attualmente lontani.
Giusto?