Uno dei privilegi di poter lavorare con autori che stanno elaborando un loro romanzo, che qualche volta è proprio appena abbozzato, è quello di poter scrutare il potenziale futuro del libro che sarà. Non come fa un indovino, badate bene, ma come chi – con un po’ di esperienza – sente che un lavoro ha una particolare forza espressiva, una lingua potente, un intreccio che può coinvolgere il lettore. Era il 2017 quando arrivò sul mio tavolo (in realtà via email) un incipit di Susy Galluzzo, che allora stava seguendo un laboratorio di scrittura sulla narrativa. Quando l’ho letto non avevo la minima idea di cosa sarebbe diventato il romanzo, ma sentivo che c’era la forza necessaria per un’opera compiuta e molto efficace. Era la scena di una madre che assisteva al possibile investimento della figlia e non faceva niente per evitarlo. La ragazza si salvava grazie al suo cane che si metteva ad abbaiare come un forsennato. Non era la madre a salvarla, insomma. Anzi si scopriva l’ambiguità di un pensiero materno che si mostrava molto lontano dagli stereotipi con il quale viene in genere raccontato. Mi ricordo che devo aver detto qualcosa tipo: «È roba forte, scrivilo». Adesso non solo Susy Galluzzo l’ha scritto ma l’ha anche pubblicato con il titolo Quello che non sai (Fazi 2021). Molte cose sono cambiate nel testo, ora la vicenda è raccontata come se fosse la lettera immaginaria di una donna che scrive alla madre morta. In realtà una sorta di diario dove racconta del suo rapporto con la propria figlia. È passata quindi dalla terza persona iniziale a un modo che mi sembra più forte e riuscito, una seconda persona rivolta alla madre, un tu che diventa praticamente una prima persona, un io, quando racconta gli avvenimenti di fronte allo sguardo di noi lettori. Ma quella scena iniziale con il suo potenziale finalmente espresso appieno è ancora lì. Vale la pena parlarne con lei in questo caldissimo ferragosto, no?
Mi ha molto colpito la scena con Michela e la figlia che apre il romanzo. È da lì che è partito tutto?
In realtà tutto è partito da un pranzo con una mia amica di qualche anno fa. Lei è mamma di due bambini. Ricordo che passai tutto il tempo a consolarla: si sentiva un mostro perché, venendo da me, aveva pensato che la sua vita sarebbe stata più bella libera dai suoi figli. Quindi ho cominciato a riflettere sul lato oscuro della maternità, che non può non esserci in un ruolo così difficile, che arriva a sconvolgere la tua identità e da cui non ci si può dimettere. La scena iniziale è apparsa dinanzi a me all’improvviso, mentre pensavo a questa storia, non ricordo più neanche quando.
Hai fatto una scelta tecnica di scrittura interessante, una lettera alla madre morta, ti è sembrato naturale usare la seconda persona?
Molto naturale. Ho perso mia madre nel 2014 e ho cominciato a scriverle dei messaggi per non interrompere il dialogo con lei. I ricordi di Ella, della sua infanzia, sono in realtà i miei, il rapporto speciale di cui lei racconta è quello che io avevo con mia madre. Il diario di Ella mi è servito ad elaborare.
La tua è una storia con un gruppo di personaggi femminili molto forti. È un libro per lettrici più che per lettori?
Per entrambi. Ho ricevuto commenti molto forti da uomini che hanno letto il romanzo. Si riconoscono nel ruolo di padri spettatori, di mariti disorientati e a volte egoisti oppure in quello di figli in perenne contrasto.
E gli uomini sono rappresentati da due figure un po’ sullo sfondo, il marito e il giovane amante. Rappresentano una difficoltà maschile dei nostri tempi?
No, assolutamente. Aurelio, il marito, appare all’inizio come un cliché dai racconti di Ella. Assente, carrierista, traditore, egoista. Andando avanti con la lettura, invece, si scopre che, nonostante tutto, Aurelio ha, a modo suo, cercato di tenere insieme la famiglia dopo essersi ritrovato accanto una persona completamente diversa da quella di cui si era innamorato.
Federico, invece, il giovane amante, è il personaggio più positivo della storia. Sincero, generoso, gentile. Ho trovato strano il fatto che abbia ricevuto tante critiche soprattutto da uomini e che sparisse sullo sfondo: ho pensato che anche nella vita reale, la gentilezza risiede in persone defilate, che non rivestono solitamente ruoli da protagonisti.
La protagonista, Michela, secondo te soffre di un disturbo psicologico preciso?
No, la mia intenzione non era quella di parlare di un disturbo psicologico, ma di descrivere uno stato d’animo familiare a chi ha affrontato difficoltà come quelle di Michela, sentimenti che possono appartenere al quotidiano di chiunque.
E la figlia è davvero “non normale” oppure è lei che la vede così?
Sicuramente Ilaria soffre di un importante disturbo ossessivo-compulsivo che la rende una figlia ‘complicata’, ma lei, come tutti i personaggi, vengono conosciuti attraverso la lente di Michela, che da narratrice inaffidabile tende ad evidenziarne i difetti.
Il romanzo sembra esplorare soprattutto la relazione madre e figlia attraverso tre generazioni di donne, c’è qualcosa in questo rapporto che ti interessa particolarmente?
Il fatto che non si smetta mai di essere figli. Michela si rifugia dalla madre nel momento più difficile della sua vita e, come una bambina colpevole, riferisce una verità rivista, che possa portare la madre dalla sua parte.
Alla fine la rinascita possibile passa per il distacco, l’abbandono. È una fuga?
È un atto di grande generosità e coraggio. Attraverso il distacco Michela e sua figlia riescono a trovare una propria serenità e a recuperare un rapporto sano.
Quindi un nuovo amore ci salverà?
No, Michela non si salva grazie a Federico. Si percepisce che Federico è un’ancora per lei, ma non ne è innamorata. Ci salverà la comprensione verso noi stessi, l’accettarsi, il prendersi cura di sé.
C’è qualche autore che ti ha ispirato durante la scrittura del romanzo? Quali sono le tue letture preferite?
Senza dubbio Cesarina Vighy con il suo L’ultima estate mi ha ispirato nel buttare fuori, senza remore, tutto ciò che attraversa la mente di Michela. Le mie letture preferite sono i romanzi di Roth e Franzen.