Ho letto qualche tempo fa un racconto che si chiamava La bolla, mi sembrò uno dei testi migliori di un intero anno passato alla ricerca di narrazioni efficaci, nei miei laboratori di scrittura creativa, da portare alla conoscenza del pubblico in una serata di letture di fronte agli editor di diverse case editrici. Lo aveva scritto Valentina Evangelista, che adesso ha da poco pubblicato il suo primo romanzo, Primo piano interno tre (Ensemble 2021), confermando – e per certi versi pure superando – il buon effetto che mi aveva fatto quella sua prima prova. Primo piano interno tre è un romanzo ambizioso nell’invenzione e nello sviluppo, per quanto breve come numero di pagine, vicino alla letteratura sudamericana del realismo magico e del surreale, ma anche alla narrativa fantastica statunitense (c’è una citazione esplicita di Stephen King da It ad aprire il libro). Un romanzo in cui i morti restano ad osservare quello che succede nella vita di chi rimane e i personaggi delle storie non si trattengono dal partecipare alla vita vera delle persone in carne e ossa, che poi detto di personaggi comunque immaginari, fa perfino un po’ sorridere. Un romanzo che intriga con il soggetto e coinvolge con l’intreccio per poi alla fine sorprendere con lo scioglimento. Una storia che racconta le vicende di due fratelli, Livio che è diventato uno scrittore famoso, autore di diversi bestseller, ma che si è ucciso. Sandro, che gli è sopravvissuto e viene guardato dal fratello mentre continua a vivere. Intorno altri personaggi, alcuni vivi, alcuni morti e altri… da scoprire. Un raffinato gioco intellettuale in una vicenda che si sviluppa in modo apparentemente semplice. Interessante, no? E quindi è arrivato il momento di fare qualche domanda a Valentina Evangelista, per i lettori di questa rubrica di chiacchierate e dialoghi con l’autore.
Perché proprio una storia di fantasmi? Ne ho lette diverse negli ultimi tempi, c’è qualcosa secondo te che le rende attuali in questo momento?
La mia idea non era tanto quella di dar vita a una storia di fantasmi, quanto di usare la morte come elemento che mi permettesse di creare una situazione surreale nella quale il lettore potesse immergersi completamente già dalle prime pagine. Questa scelta era funzionale al “gioco” che intendevo costruire e rendere credibile. Mettere il protagonista nella situazione più scomoda possibile, in una condizione estrema e apparentemente priva di sbocchi e “soluzione”, aveva lo scopo di coinvolgere attivamente il lettore in questa vicenda che si muove su più piani e all’interno della quale la maschera, l’illusione e la proiezione giocano un ruolo significativo. La contrapposizione tra vita e morte l’ho usata per introdurre l’altro tema centrale del romanzo, forse quello che più mi incuriosisce, il rapporto tra realtà e finzione.
Un fantasma scrittore suicida che raggiunge il grande successo da morto, è il timore di ogni esordiente, no?
La paura di mancare gli obiettivi è un’ombra che si allunga sull’intero romanzo. Livio, il mio protagonista scrive sotto pseudonimo, ma non è tanto la fama che gli interessa, quanto riuscire bene in qualcosa che gli sta a cuore e portarla a termine come si deve, prendersi una rivincita su una vita che gli si è presentata molto diversa da quella che avrebbe desiderato per se stesso. Credo che quando si scrive si sia mossi da una necessità che non lascia troppe alternative, quella di “buttare fuori” e attribuire una forma a quello che, per motivi diversi, non si riesce più a contenere dentro di sé. Il riscontro esterno ha sicuramente un peso, ma ritengo sia del tutto secondario rispetto alla sfida che ci si pone con sé stessi.
Ti conoscevo come scrittrice di racconti, come mai hai tentato il romanzo?
Primo piano interno tre non nasce come romanzo, ma come H2O, un racconto poco riuscito del 2015. La formula narrativa del racconto è a mio avviso la più interessante, ma anche la più complessa da “maneggiare”. Non a caso Julio Cortazar, maestro del racconto e uno dei miei scrittori favoriti, lo paragonò a una sfera, dunque alla forma perfetta, i cui confini sono sempre celati e la tensione è al massimo. Una forma in cui l’energia spirituale brilla, a partire dall’incipit fino alla chiusura, arrivando a illuminare il molto piccolo, e a volte persino miserabile, aneddoto narrato. È una sintesi estrema, una sfida davvero complessa. Nonostante i numerosi rimaneggiamenti, che finirono solo per peggiorarlo, H2O quella luce non riusciva ad averla, eppure l’idea mi era carissima e i personaggi mi sono rimasti in testa e nel cuore per anni. Così, durante l’isolamento forzato che abbiamo tutti vissuto, ho pensato di dare una seconda possibilità a un’idea che mi pareva buona e originale, ma che forse necessitava di un “contenitore” più ampio che mi concedesse la libertà di qualche inciampo e imprecisione.
Anche se con elementi fantastici, l’ambientazione è decisamente realistica, ti piace mescolare i generi?
Credo che l’elemento surreale calato in un’ambientazione realistica abbia lo stesso impatto di uno scarafaggio su un piatto di fine porcellana. Può rischiare di essere estremo, persino spiacevole o disturbante, ma è un’immagine che ti resta incollata nella testa, che non può evitare di suscitare in chi legge una reazione piuttosto potente. Sono attratta dalle storture, dall’inatteso e dalle mescolanze nella scrittura, direi nell’arte in generale. E mi diverte molto affrancarmi dal tentativo di rientrare in un genere preciso e invece sperimentarne diversi e anche fonderli per vedere che effetto farà.
Hai pensato a qualche autore in particolare mentre lo scrivevi? C’era un nume tutelare creativo che ti sosteneva nella scrittura?
I richiami agli autori che amo sono diversi, in molte pagine del romanzo persino espliciti: Stephen King, Charles Bukowski, Pier Vittorio Tondelli, Ian Mc Ewan. Ma su tutti, una scrittrice mi accompagna sempre e in maniera profonda e intima, Shirley Jackson. Il suo talento esplode nel rovesciamento narrativo e nella capacità di far percepire una minaccia incombente senza necessariamente palesarla o concretizzarla, nel raccontare il quotidiano frugandolo nelle pieghe più buie nelle quali di rado si è disposti a guardare. Per me Jackson rappresenta un modello altissimo cui tendere e una continua e potente fonte d’ispirazione.
La storia si svolge in un condominio, palazzi e fantasmi vanno d’accordo, no?
Per me le case conservano memoria, sono contenitori in cui scorre e pulsa l’energia di chi li ha attraversati, delle storie che ci si sono vissute o anche solo pensate e immaginate dentro. Gli edifici li ho sempre visti come grossi organismi viventi dotati di molteplici anime, di occhi e bocche che osservano e che, se solo volessero, potrebbero raccontare molto e persino divorarti. Nel mio romanzo chi è morto resta intrappolato nel luogo in cui la sua vita si è interrotta e il perimetro dell’immanenza ha come confine la “zona” occupata da un altro. Una specie di rete invisibile di presenze che scorre in un luogo fisico delimitato da pareti che, a ben guardare, non sono poi così resistenti e fisse.
Un personaggio che si ribella al suo autore è al centro di questa storia. Non hai il timore che i tuoi personaggi possano ribellarsi a te?
Non ne ho il timore, ma la certezza. In qualche modo i personaggi di Primo piano interno tre l’hanno fatto, strappandosi a morsi il diritto di essere raccontati non nello spazio ristretto di un racconto, ma in quello più ampio di un romanzo. Posso dire che mi hanno portata esattamente dove volevano, e forse il bello è stato proprio questo.
C’è qualcosa, nella tua immaginazione, che unisce i fantasmi ai personaggi dei racconti e dei romanzi? Si somigliano?
Mi è capitato spesso di rifletterci e credo che il punto di contatto tra loro sia il buio che li avvolge e custodisce fino al momento in cui qualcuno decide di raccontarli utilizzando non solo l’immaginazione, ma anche il ricordo. Una volta portati alla luce, essi iniziano, o ricominciano, a vivere ma conservano un mistero che non può essere mai sciolto del tutto. Perché di quel buio dal quale provengono noi non sappiamo nulla, ci limitiamo a intuire e fantasticare.
C’è un romanzo raccontato e citato all’interno del romanzo che hai scritto. Esiste davvero oppure ci sono solo i frammenti che leggiamo?
Il meccanismo, fortunato romanzo d’esordio del mio protagonista, non esiste nella realtà, come non esistono Frammenti di identità e Ossa rubate. La trilogia di Livio Cremisi esiste solo in Primo piano interno tre, nei frammenti che ne vengono citati dai protagonisti all’interno del romanzo. Tuttavia la genesi de Il meccanismo ricalca in modo piuttosto fedele quella di Primo piano interno tre. Anche in questo caso i piani si sovrappongono e si confondono in un gioco in cui realtà e finzione si mescolano e incastrano come scatole cinesi.
Nella vicenda dei due fratelli che non sanno comunicare, anzi che comunicano quasi più quando uno è morto che quando erano entrambi vivi, hai voluto descrivere qualche storia reale che hai incontrato?
Non ho esperienza diretta del rapporto tra fratelli, essendo figlia unica. E non esiste un riferimento preciso nella mia realtà ad avermi condotta alla relazione accidentata tra Livio e Sandro. Tuttavia so che nei rapporti tra le persone, soprattutto tra quelle che si vogliono bene, i non detti spesso diventano ingombranti soprammobili che finiscono spesso per rendere gli spazi impraticabili, inaccessibili. Le relazioni tra i vivi sono complicate, spesso dolorose, matasse difficili da sbrogliare e recuperare. Avere a che fare con i morti per molti versi è più semplice, perché ti permette di illuminare solo la parte migliore, sia di te che dell’altro che non può più darti torto né farti da impietoso specchio, e di esercitare una specie di memoria selettiva mettendoti in una certa misura al riparo dalla sofferenza.