CHI O COSA C’È ALL’ALTRO CAPO

"All’altro capo", il titolo di questa splendida raccolta, apre il cuore alla speranza. Sembra davvero il segno e il senso di una apertura

Sveliamo subito il mistero del titolo della puntata di oggi.

All’altro capo è l’ultima raccolta in ordine di tempo pubblicata da Roberto Deidier per Lo Specchio, collana di poesia di Mondadori in cui nel 2014 è uscita anche la raccolta Solstizio.

Torniamo a parlare di Roberto Deidier, dunque.

Come sempre, questo spazio non è tanto adibito, come potrebbe sembrare, alla recensione di singoli testi, ma prova semmai, attraverso alcuni di essi, ad affrontare alcune questioni della poesia. Fermo restando che il tema dei temi, emerso nel tempo in questo spazio, è la contesa tra scrittura e silenzio.

Una questione capitale che, come ci è stato ricordato da più parti in questi giorni, era il pallino, per dire, di Samuel Beckett, che di frantumazione del linguaggio, di ricorso al linguaggio solo quando è fatto essenziale, di sostanziale immobilismo e silenzio, anche, era uno che se ne intendeva, e annet= teva al linguaggio come a tutte le attività umane un che di strenuo ed estenuato o forse di completa= mente esaurito. Cominciamo dal commento in versi che Deidier fa di un altro irlandese estenuato:

 

BACON

 

La linea è un urlo, o un urlo è una linea

Sonora, un bianco altare dove si strazia

Una lenta eucarestia, o un confine

Su cui crolla il colore, come uno schiaffo

Improvviso sulla guancia di un bambino,

Ingiusto, e che l’urlo vorrebbe vendicare.

Ma è una linea, incerta come un’alba d’inverno,

Il freddo trascinato dal grigio quando il mattino

Urla segretamente, e da qualche parte un autobus

Innocente entra nel sonno con l’odore

Di una frenata brusca sull’umido dell’asfalto

E infine il silenzio invade i fili, i muri,

Le sinapsi, e la voce non esce.

Neppure fossimo nel regno dei morti.

 

Come si vede passiamo dall’urlo al silenzio: ricordiamo tutti le chiostre urlanti di Bacon, e i ghigni per l’appunto definiti baconiani, figure tutte denti, tutte gola, tutte grida. Bene, Deidier disinnesca l’urlo giocando sulla “linea” come condotta e come traccia sonora per depotenziarlo assottigliandolo e poi ridurlo prima a urlo segreto, inudibile, infine a silenzio per cui la voce non esce. L’urlo in realtà è solo una smorfia. E in quella smorfia c’è l’impotenza di fatto di chi è afono o disfonico (so cosa vuol dire), oppure come l’Innocenzo III di Velasquez mastrichiato da Bacon, appiccicato a una tela, muto. Versi civilissimi e potenti che possono venire in soccorso in una discussione sulla poesia, anzi, meglio, sulla lettura della poesia. Quante volte assistiamo, a me è successo qualche volta di troppo, alla proditoria estrapolazione di singoli versi o brevi fraseggi, dopo di che chi ha letto così di rapina spara il suo giudizio “saputo” e liquida non solo quegli estratti ma getta l’intero lavoro di un/a poeta al secchio. Ecco, c’è una questione, apparentemente lontana dalla contesa tra silenzio e scrittura, che qui si accende. E cioè, da un lato il linguaggio della poesia, il suo dispositivo sintetico, dall’altro lato la necessità della contestualizzazione, sempre, dei versi nel tessuto della raccolta. Entrambi elementi che chi legge deve ricordare. È vero che ci sono versi folgoranti che da soli riassumono una poetica. L’esempio forse più dolce e fulminante è:

“Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita”,

 

il noto distico di Sandro Penna, che sembra quasi di risentire in certi versi di Deidier, questi:

 

[…]

Si sopravvive così, senza argini.

Dentro un umore piatto, una costanza

Aspra disciolta in questo azzurro di aprile,

Resistendo all’ossessione

Di nulla amare, prendere, fermare.

 

Deidier si è occupato di Sandro Penna, ne ha curato il Meridiano.

Qui non solo utilizza molti più versi, molte più parole rispetto al distico di Penna, ma ha un tono, una frase poetica, affatto diversa. Laddove Penna desidera abbandonarsi al frastuono come a una musica in cui vivere facendo ciò che gli pare, quasi niente, Deidier esprime una drammaticità che denota rincrescimento di un niente colpevole.

Tornando alla nostra questione, però, è evidente che abbiamo estratto maramaldescamente due passaggi deidieriani diversi e collocati molto diversamente nella raccolta su cui stiamo ragionando ma avvertiamo che le due sequenze dialogano, nel tono, nella conflittualità sotterranea del dettato.

Soprattutto nella sequenza in cui, senza troppo darlo a vedere, è conteso tra urlo e silenzio, il poeta, scegliendo come strumento espressivo l’apparente “lettura” di certe proverbiali figure baconiane, ci rivela in ultima analisi, se restiamo bene in ascolto e abbiamo la pazienza di seguirlo, se gli diamo il tempo di condurci, che l’urlo è un rispecchiamento, soprattutto là dove esso diventa segreto e muto, ed è solo una deformazione tremenda dell’espressione, del viso, risultando in un desolante silenzio.

Ecco, leggere deve non solo far vivere quei versi ma permettere loro di dire ciò che hanno da dire, e rivelarci ciò che portano dentro di sé, che non è solo ciò che vediamo al primo impatto in superficie.

 

IL RITORNO

 

Il cane attende già dietro la porta,

Guaisce, punta il muso di ruvida sentinella

Indifferente al gioco, ai richiami.

La coda ferma s’agita alla prima mandata.

Ti accoglierà stropicciando i vestiti

D’una giornata sgualcita, lo sguardo

Dritto al tuo viso di disfatta, il fiuto

Felice. Il cielo all’imbrunire accarezza la terra

Che sa di verde, di morte, di silenzio

Con ombre lunghe dalla strada alla soglia.

Il rampicante esplode d’accoglienza,

Rami e foglie si stringono al graticcio

Come il cane alla gamba, la rinserra

E mentre afferra un lembo della giacca

Solo una carezza lo distoglie,

Quanto è forte la paura dietro l’innocenza.

 

Formidabile questa analogia tra il cane e i rampicanti, entrambi stritolatori d’amore. Raccontino.

Quando ero in un’altra casa, avevo un piccolo giardino squadrato e circondato da alte pareti.

Un giorno decisi che avrei spostato il falso gelsomino nella parete laterale per fare in modo che non prendesse la luce diretta ma godesse di una luce indiretta, obliqua [la dickinsoniana slant (of) light]. Per farlo, staccai gl’innumerevoli viluppi fioriti che drogano di profumo e me li poggiai addosso: non posso dimenticare il brivido di sentire avvinghiato a me il suo abbraccio di rampicante abituato a correre e circondare senza freni. Ero abbracciata da una creatura viva e finché non poggiai la base, il grande vaso, e non presi a staccarmela di dosso con pazienza, tentacolo per tentacolo, non smisi di provare un sottile terrore misto ad affetto.

 

Del suo stridere insistito la poiana

Non conosce le altezze, né quali risuonano

Nelle frequenze del nostro orecchio interno.

Perché grida, e se il suo canto la orienta

Al sicuro tra le rocce o nel folto delle prede,

A che la vista, e comunque affonda

Con chirurgico dolore nella macchia…

E noi che insistiamo a gettare

Oltre pareti di granito il nostro acuto greve

Quando amore volta le spalle o si nasconde,

Davvero cosa, cosa crediamo di aver visto nel folto?

 

Questo guardare nel folto e credere di vedere ci ricolloca in un contesto, la natura, in cui domina, pur inconsapevole, la poiana, e la dinamica è tra prede e predatori, e nella gara tra versi lo stridere insistito animale ci supera perché il nostro verso umano è solo un acuto greve.

In questa raccolta c’è un clima.

È l’estate meridionale, torrida, polverosa. Estate implacabile di sole lucente. L’agosto senza ripari.

 

Verso sera, i gomiti sulla ringhiera,

Si va incontro a un’improvvisa limpidezza.

La polvere del giorno decanta

Sembra più alto il cielo. L’ippocastano

Piega i rami sulla corona di ortensie

E le sue voci si fanno profonde

Come un fuoco di cori segreti.

 

I gomiti sulla ringhiera ancora calda

E il cielo sempre più alto.

 

Si parte da un gesto comune, abitudinario. Affacciarsi, a fine giornata, e guardare fuori.

Se posso dirlo, ma sì, lo dico: un gesto anche molto meridionale. Questa abitudine quotidiana ha un immediato esito rivelatorio. Per prima cosa la limpidezza, la vista riconquistata. E poi la distanza che si dilata tra i gomiti poggiati sulla ringhiera e il cielo, una constatazione che deriva dal guardare e capire, introduce l’elemento dell’allontanamento, lo iato che si allarga tra noi che siamo qui affacciati a un balcone e il cielo con tutto ciò che contiene che si alza sempre di più, e guadagna sempre maggior distanza. Intendiamoci, la poesia non si legge come un giallo o un poliziesco e chi la legge non deve comportarsi da detective perché non ce n’è necessità. Però in questo libro, lo dico senza dirlo, per mettervi il sale sulla coda, come in tutti i libri, c’è sempre un filo portante, un percorso che si rivela strada facendo. Il filo di un sentimento. E il frutto di un fatto.

 

A nulla serve voltarsi,

Indietro vanno solo i ricordi,

Crudeli come una sconfitta.

Anche il destino più lento

È pur sempre un destino.

 

Quale sia la lingua degli addii

C’è da chiedersi, senza più rabbia,

Come i discepoli davanti al maestro

Che scrive col dito sulla sabbia.

 

La conseguenza auspicabile, vera, di una rivelazione è una variazione di postura. Sono i ricordi ad allontanarsi via via, a distanziarsi come il cielo che sale sempre più su. Si attiva un moto analogico conforme tra questi elementi, e poi la perdita è anche acquisizione di una lingua nuova.

 

[…]

Quest’autostrada mi riporta indietro

Al mio futuro, ad altri viaggi senza te,

Mi fa pensare come scorre sull’asfalto

La mia attesa, come stia in agguato la paura

A un cantiere, a una deviazione,

Se questo altro non siamo, un percorso

Di accidentata felicità, di sorprese

Non segnalate, incaute sospensioni.

 

Dunque, tornare al punto di partenza riapre la pista del possibile e del futuro prossimo. È futuro che riparte dal punto in cui fu lasciato nel passato, là dove deve essere riacceso.

 

Nella sezione ATELIER VALADON troviamo uno dei molti fermo-immagine, cioè un’immagine fissa che fermando l’istante, se altrove impediva a qualunque cosa di muoversi ma anche di invecchiare e finire, qui ci sprofonda in una situazione interrotta in cui tutto è stato lasciato come il giorno in cui il trio infernale (Suzanne Valadon, con suo figlio, Maurice Utrillo, e il compagno di lui, André Utter, pittori a Montmartre), che abitava lo studio, lo lasciò: addirittura sul cavalletto c’è ancora l’ultimo quadro, lasciato incompiuto. Dunque una sparizione è un’interruzione.

 

Una porta, cent’anni, una capriola

Più indietro, ancora, fino a quelle voci

Di donne – le ciminiere lontane,

Impensabili fumi sulle ardesie

Di questi tetti, il villaggio, le strade

Di porta in porta raccogliendo i panni

Con la madre, lei sola un universo

 

E crocifisso al palo il calendario

Del millenovecentoventicinque.

 

*

<<[…]

Il mio desiderio non è chiaro

Ma il cielo dei miei quadri è finito.

Lì, sul cavalletto dei nudi, dei ritratti

L’ultimo vaso non è colmo dei miei fiori.>>

 

*

V

 

(Questa poesia si è persa per pigrizia.

 

La storia è questa: scrivo sull’ultima

Pagina bianca di qualche libro

E il più delle volte non ricopio.

 

La storia è questa un nugolo di voci

Che non parlano

Dal fondo di uno schermo o di una piazza

 

E il più delle volte…

 

 

Apparentemente un’innocente notazione sui modi e i nodi della composizione. La confessione di una ingenua sbadataggine, un’innocente ammissione di smemoratezza per i materiali di scrittura sparsi in preda a impulsi che derivano forse anche da altrettante letture. Chi di noi, mentre legge, non annota nelle pagine bianche dei libri dei versi, degli appunti, delle idee che poi andrebbero riportati in modo ordinato, copiati su basi più stabili. Salvo però dimenticare DOVE. È un’innegabile perdita, uno smarrimento incolpevole che però, anche qui, provoca un’interruzione. Anzi una vera e propria separazione del poeta da sé stesso.

 

Stasera il bosco della mente

Ha suoni che rapiscono.

Sul pavimento scorrono

Ombre minuscole, veloci.

 

Non ho altri sensi, non ho

La sorpresa dell’amaro

E non mi cauterizza alcuna nausea.

Le mani non sono che ricordo.

 

Mettere insieme tutte le parti,

Non si può. Com’è vorace l’alfabeto

Che all’altro capo di questa radura

Mi trascina.

 

*

TUTTI INSIEME

 

Ci sono state guerre o qualcosa che ricordi come tali.

Un letto grande, ma a sera diventava così stretto

Come il mare dell’infanzia quando si ritira su un’isola triste.

I respiri si accavallavano nel sonno e pure l’isola

Si accavallò sul suo atollo disperso e poi svanì

Come un ricordo fortuito. Sotto la crosta del lenzuolo

Un mondo di bugie, di sospetti, il nascondino

Delle colpe e dei segreti coltivati come un raccolto

Fuori stagione. Non c’erano più numeri

Per potervi ancora contare. La storia che vi ha inghiottiti

Non l’ho inventata, non l’ho scritta io.

 

 

Ecco, questa idea della perdita, o meglio della sottrazione, del venir meno, del restringersi del numero del gruppo in cui si era tutti insieme, pone la vera questione: perché dobbiamo subire tutto questo senza avervi parte attiva? Perché ritrovarsi al centro di un destino di cui non si possiede il dominio, il controllo?

 

 

Ho sempre trovato te, all’altro capo.

Ora che te ne sei andato

Vivo un giorno alla volta.

 

 

All’altro capo, il titolo di questa splendida raccolta, apre il cuore alla speranza. Sembra davvero il segno e il senso di una apertura. Di una corrispondenza. Se c’è qualcuno all’altro capo (del filo, per esempio, o della connessione) vuol dire che un “ponte sospeso” è tuttora in piedi, e che è in corso un dialogo: ci sono due estremi, almeno due persone legate tra loro. Ma il senso polisemico di questo sintagma -che è anche una notazione geografica di continuo allusa nella raccolta, e dopotutto vissuto anche dal poeta che si muove tra Roma e la Sicilia, dunque rimbalza tra la capitale e un capo estremo staccato dal continente- riesce addirittura a rovesciare la potenza sintetica di questa espressione eponima, all’altro capo, venendo a significare che il poeta e qualcun altro sono uno ancora presente e l’altro oramai assente – cioè ci viene a significare il senso di una fine e di un restare tagliati fuori. E la fine e il conseguente restare tagliati fuori non è solo sintomo di una assenza biologica ma ancor più dolentemente l’allusione alla fine di un legame forte e duraturo. Non so quale, più incisivamente, possa considerarsi “panem doloris” che è stato “manducato”, quale cioè è stato cibo irrinunciabile, da mangiare forzati da stringenti, ineludibili circostanze. E poi la lingua opera una descrizione proprio sintomatica: lo notavamo prima – la luce è accecante, l’agosto è polveroso, l’estate è torrida. Nella vita esplosa e maturata sono radicati tutti i prodromi della fine, di un epilogo appunto ineludibile. Anche la bellezza, le cene piacevoli, come momenti di smemoratezza, di riposo, di tregua, hanno in sé qualcosa di mesto – come la spia della loro stessa fine.

 

 

L’ombra risaliva il dirupo

Come una memoria scura

Sorprendeva la vista,

Lasciava al giorno soltanto

L’oro e il verde delle cuspidi.

Sant’Agata dei Goti,

La luna uno straccio bianco

Nel cielo ancora acceso,

Tra gli inviti dei fichi

E il loro odore di mosto

Che penetrava il tufo.

L’aria spessa d’agosto

Una musica da afferrare

Con le mani.

 

Per l’istante di una foto ho voltato

Le spalle al mio paese ancora buio.

Nel sonno ho ricomprato la mia casa,

Tu chiamavi tua madre.

 

Un elemento in gioco in questo ping-pong possibile e interrotto, nelle more della comunicazione, fiocca in un esergo (dopo quelli tratti dal Salmo 126 di David e dalla sua trascrizione ad opera di Antonio Vivaldi – segni anche di un gusto e di una sapienza musicali, ma proprio di un “ambiente” mentale che non è solo tradizione e cultura, è proprio sintonia e armonizzazione) che apre “E., DAL 1982”. L’elemento in gioco è la capacità di parlarsi e di intendersi. E l’esergo è:

 

the word and the shadow of the word

  1.    WALCOTT,

 

-Walcott, l’Omero dei Caraibi. Cioè: la parola e l’alone della parola. La parola e la sua ombra, la sua forza premonitrice, il suo valore di segno, la sua connaturale oscurità. Cioè: la parola nuda e cruda, e il suo mistero, la sua impenetrabilità, la sua ambiguità. La parola permette davvero di comunicare? È sicuramente un buon tentativo, e anche l’unico. Certamente la parola “sospende un ponte” tra due punti, tra due capi o estremi. Anche la trasmissione ha il suo peso nella capacità della parola di dare significato al suo stesso valore. Pesano le interferenze. Ma al netto di esse, ci si intende davvero? È questo il contenuto strenuo ed estenuato.

 

Sei tu a non aver ascoltato, anche se io ho parlato.

Sei tu a non aver risposto specie quando io ho detto.

 

 

Come un dialoghetto muto, in quest’ora

Che ha fin troppi colori perché ne veda uno

E possa portarlo fino a te, alle tue stanze

Serrate – Novembre, ripetevi, ha i colori

Più belli e poi non riesco più a parlarti:

La retorica delle labbra confonde anche la gioia

Di pensarti e non voglio imitare nessuno.

Non ho più pazienza di attendere sogni,

Apparizioni, se la tua voce è una sola parola

Che mi nasce in testa, a forza, sulla mia.

E non faccio in tempo ad ascoltarla.

Devo uscire, non importa se novembre

Sarà il rame delle foglie o sarà pioggia:

Al contrario di te non ho un luogo preciso

Nei ricordi di cui non so disfarmi.

 

*

 

A lungo ho conservato il tuo numero

Nelle nuove agende […]

 

Il fiato lungo degli anni alla fine è un soffio,

Una piccola tempesta omeopatica

Che ci costringe a misurare le abitudini,

Addestrare il circo inquieto dei giorni:

Se esplode la pena in una risata

Niente e nessuno sarà venuto a liberarci

E il ricordo, quando balbetta, è pur sempre un rumore.

 

 

La sensazione che cogliamo pedinando il percorso proposto da questo libro è un’idea di maturità: la svolta improvvisa e non preventivata, assurdamente e lungamente procrastinata – e in cosa consiste se non nell’immediata, fulminante constatazione che la fine è possibile, e non è lontana. È come vedere tutto non “da questo capo” dove, direbbe John Keats, abbiamo soggiornato a lungo, ma stando “all’altro capo”, e rivedendo tutto indietro, con una percezione, delle sensazioni, una consapevolezza affatto diverse.

 

 

Mi accorgo dell’estate quando l’estate finisce.

Prendo le misure della notte quando albeggia,

Quando è più debole. È un cammino a proposito

E non ha più paesaggio. E io non ho peso.

 

Bruciano stoppie nello stesso ricordo,

La luce non avanza. Il resto di un rigo

Sopravvive come un byte disubbidiente.

Nessuna guerra è mai così lontana.

 

 

Esplorate questo libro. Compulsatelo. Ascoltatelo. E ditemi se non ci trovate ciò che ci ho visto io: soprattutto ditemi cosa che ci vedete voi che io non ho saputo vedere. Insomma comunicate, per esempio sfruttando lo spazio dei commenti sui social (FaceBook e Instagram).

 

 

La fotografia in questa pagina è di Dino Ignani https://www.dinoignani.net/ 

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