C’è uno scrittore che anno dopo anno sta costruendo un universo che è il nostro universo, una saga famigliare che si snoda attraverso il Novecento, ma lo fa senza il peso dell’ideologia che in genere accompagna la scrittura di queste storie. Anzi, direi che il punto di vista scelto dall’autore mi sembra originale proprio perché è quello che potremmo trovare in tante famiglie italiane, con i protagonisti travolti, sfiorati e talvolta carezzati dalla grande storia, che osservano un po’ spauriti e un po’ impavidi, lottando o adattandosi per andare avanti, nella buona e nella cattiva sorte, come si dice. L’autore è Marco Proietti Mancini, che ha appena pubblicato il romanzo La luce degli istanti felici per le Edizioni della sera, casa editrice che gli ha affidato anche la cura editoriale della collana Roma per sempre. Questo volume è il quarto episodio di una epopea romana, ma non romanesca e folcloristica, semplicemente popolare, ambientata tra Roma e il paese delle radici, Subiaco. Ed ecco che ho deciso di fargli qualche domanda.
Prima di tutto, l’avrai già detto mille volte, ma ripetilo per i nostri lettori, chi sono Benedetto ed Elena, i protagonisti principali di questo romanzo?
Benedetto ed Elena sono i nomi dei miei genitori, che ho usato – insieme ai nomi di moltissime altre persone realmente esistite e a me congiunte, prossime – per semplicità d’utilizzo e per non doverne inventare altri, magari rischiando di fare confusione, visto che la mia storia è una storia corale, collettiva. Ho investito questi personaggi – Benedetto, Elena e tutti gli altri – del compito di diventare degli esempi, adesso con un termine dotto si definirebbero “paradigmi”, di cos’era una famiglia popolare, cosa significava essere ciottoli nel corso di un fiume, spostati dalla corrente della storia ma insieme artefici della sua deviazione. Si chiamano Benedetto, Elena, Antonia, Maggiolino, Giustina e così via, ma in realtà sono tutti noi, le nostre comuni radici ed origini. Questo è vero dal primo dei quattro romanzi che ho scritto, provando a raccontare una storia di popolo, dal 1915 almeno fino al 1961 in cui si conclude quest’ultimo romanzo. Poi si vedrà.
Il racconto si snoda attraverso un periodo che è segnato dalle olimpiadi del 1960, ha un ruolo perfino Livio Berruti. Perché l’hai scelto?
Perché era un ragazzo di 66 chili, uno scricciolo in mezzo a giganti, perché veniva da una famiglia della media borghesia piemontese, perché nessuno lo dava per favorito, anche se veniva da ottime prestazioni sembrava già un mezzo miracolo che fosse arrivato in finale. Qualche anno prima delle olimpiadi, suo padre aveva scritto una letteraccia alla federazione di atletica, diffidandoli dal sottoporre il figlio a sforzi eccessivi. Quando finì la carriera, Berruti si mise a fare l’impiegato, come tanti altri, come chiunque altro. Berruti – secondo me – è l’emblema di un popolo minuto, ostinato eppure sorridente, che riesce, nonostante tutto e tutti, a vincere. Ecco perché.
È un periodo di grandi trasformazioni, Roma si allarga, il cemento comincia a ricoprire i prati, i tuoi personaggi vivono la trasformazione, ma tu ti senti un po’ come il Celentano che cantava “Il ragazzo della via Gluck”?
Mica sbagliato, come parallelismo. Forse un po’ sì, la battaglia era già iniziata negli anni 60, avrebbe dovuto iniziare, almeno. Invece si era tutti accecati da parole come progresso, sviluppo, crescita, senza guardare al costo che queste tre cose avrebbero comportato. Un costo che stiamo pagando noi e che le generazioni future pagheranno ancora più caro. Con un’aggravante, che all’edilizia e all’urbanizzazione popolare di quegli anni, si sta sostituendo il saccheggio sistematico del territorio da parte dell’edilizia di affari. Roma è letteralmente circondata, affogata da cadaveri immensi, costruiti per speculare, realizzando “Poli”, tecnologici, di servizi, di uffici, destinati all’abbandono dopo pochi anni, per realizzarne altri. Tiburtina, Romanina, Rustica, Prenestina, Ostiense, direzione Fiumicino, stiamo cannibalizzando spazio, terra, coprendo fossi e fonti, sottraendo risorse alla natura. Potrei farti decine di esempi, ma il tema mi provoca veramente rabbia, preferisco soprassedere.
Quanta ricerca storica hai fatto, oppure faceva già tutto parte della tua memoria?
Per questo romanzo ho dovuto fare parecchia ricerca, sia in fase di scrittura che successivamente in fase di editing insieme all’ottima Giulia Vierucci, che mi ha suggerito altre verifiche da fare. I motivi sono tanti, la storia recente è quella che si studia di meno, pur avendola vissuta “da vicino”. Mi sono reso conto che è vero, più sei dentro le cose, i fatti e le vicende, più è difficile apprezzarne e capirne la portata e definirne i contorni. A questo c’è da aggiungere che la narrazione orale degli anziani, quella che mi ha fatto arrìvare fino al romanzo precedente a questo, si ferma appunto all’immediato dopoguerra. Quello che è venuto dopo erano troppo impegnati a viverlo, per riuscire a raccontarlo.
Nella nota al romanzo, Sandro Bonvissuto scrive che la vita di ognuno merita un romanzo. Sei d’accordo?
Totalmente. Se si riesce a farla diventare il “paradigma” di cui sopra, se si riesce a fare in modo che molti, leggendola, riescano a sentirla propria, riconoscendosi. A quel punto diventa una questione di tecnica narrativa. Di saperla raccontare, questa vita di ognuno. Sandro è stato molto più che lo scrittore della “nota al romanzo”, è stato il fratello nello specchio, con cui confrontarmi nella fase di editing.
L’Italia che racconti in questo romanzo è quella che è appena uscita dalla guerra, ha ancora i graffi del conflitto sulla pelle, ma sembra quasi non pensarci. Molto differente da oggi, eh?
Molto. Siamo spesso come bambini viziati, tutto troppo facile, semplice, scontato. Sottovalutiamo, minimizziamo, non abbiamo esperienza di cadute rovinose e di tragedie collettive, per capirle devono succedere a noi, al singolo, allora e solo allora strilliamo e ci lamentiamo. Chi è passato in mezzo all’uragano impara a godere della bonaccia. Noi ce ne lamentiamo.
Un’altra cosa che colpisce è la facilità di vivere in queste famiglie numerose, con tanti figli. Ai lettori di oggi, figli unici e magari di genitori divorziati, sembrerà impossibile.
Come sembreranno impossibili tante altre cose. Torniamo alla risposta alla domanda precedente, al dare per semplice, per scontato, tutto quello che abbiamo. Il bagno in casa, anzi, perché uno solo? Due, tre. I riscaldamenti, la carta igienica doppio velo, i vestiti sempre nuovi, stagione dopo stagione, le camere per ogni componente della famiglia, i materassi ortopedici, e così via. Per questo provo – ci provo, sperando che qualcuno mi creda – a raccontare la vita spicciola, le cose minime, della vita di ogni giorno di quel popolo lì, anche – prosaicamente – raccontando di quando la “carta igienica” erano dei riquadri di carta di giornale attaccati al muro con un chiodo.
C’è come al solito Subiaco nella tua scrittura, inutile chiederti cosa ti lega a questo luogo. Ma tu lo vedi cambiato quanto Roma, oppure no?
Per alcune cose è cambiato di più. Provo a spiegarmi meglio, il gap, le differenze che c’erano ancora in molte cose, comportamenti, mode, fino a pochissimi decenni fa, si sono appiattite, con una velocità di trasformazione che a Subiaco è stata superiore rispetto a Roma. Però in tante altre cose, soprattutto riguardanti le persone, le loro priorità, Subiaco è rimasta ancora genuina. L’amore per la terra, per la campagna e per quello che significa, per le tradizioni e per certi posti, certe abitudini, quello è rimasto ed è ancora fortissimo. Sai cosa ti dico? Se dovesse arrivare un cataclisma, una trasformazione che ci obbligasse a ripartire da capo, la gente di Subiaco si troverebbe ad essere più forte. Perché più ancorata alle cose che valgono.
Il mondo che descrivi è un mondo di gente più ingenua rispetto a quello che ci circonda?
No, anzi. Mi verrebbe da dire che si tratta di persone con una maggiore consapevolezza, con una gestione delle priorità e dei valori che è superiore rispetto a quella attuale. Non sono più ingenui, forse sono più innocenti, individualmente e collettivamente. Noi abbiamo perso entrambe le cose, innocenza e ingenuità, ora va di moda il cinismo. Ma il cinismo se viene abusato diventa un alibi ai propri pregiudizi.
Sembrerebbe quasi che il Male, sia quello storico che quello più profondo, metafisico, non si faccia quasi vedere nelle loro vite, a parte qualche normale imprevisto, una malattia grave ma purtroppo comune, dove si nasconde?
Il male l’ho lasciato alla fine dello scorso romanzo, in questo non c’è spazio – almeno non più di tanto – per il Male con la M. Ne accenno quando lascio che Benedetto faccia le sue riflessioni notturne in poltrona, quando ricordo che il sogno di grandezza e di potenza è costato la perdita di milioni di vite e la violenza verso gli innocenti. In questo romanzo ho voluto tornate a concentrarmi con lo sguardo sui singoli e sulle loro vite minime, quotidiane. Sulle preoccupazioni e sulle gioie di ogni giorno. Se dovessi proseguire nella scrittura di questa personalissima storia del novecento, il Male dovrà per forza tornare nel prossimo romanzo, con gli anni delle stragi, del terrorismo, della paura collettiva.