A vedere l’immagine qui sopra, si potrebbe pensare che l’autore di questo romanzo, che si fa fotografare dentro la vetrina di una libreria, sia un po’ bizzarro o perlomeno sia grande amico del libraio. Ma ne ha tutte le ragioni, perché lui è il libraio. Ma non solo, è uno scrittore di pregio, già autore di vari racconti e di un bel romanzo per Gaffi, Tra le macerie, ora di nuovo in vetrina con la sua ultima opera per Bompiani, I famelici. Si tratta di un romanzo raffinato e popolare nello stesso tempo, che racconta solo apparentemente la biografia dell’autore e dei suoi genitori, con i loro amici, o incontri con personaggi più o meno noti, celebrati o comuni. Narra infatti l’epopea di una generazione, quella di coloro che oggi hanno intorno ai settant’anni, che hanno creduto con una sorta di vorace energia anche gioiosa al proprio riscatto sociale e hanno aderito al sogno piccolo borghese, con le sue miserie, i suoi splendori e i suoi drammi. Il tutto visto da un figlio che li osserva e impara a comprenderli. Giusta l’occasione per farci una chiacchierata, no?
Mi pare che ci sia una tendenza nella società letteraria di oggi a considerare il silenzio come una necessità rispetto alla scrittura, tu però te ne sei sottratto, lo scrivi esplicitamente. A un certo punto dichiari: “Quanto a me, ho fatto di peggio che nascondermi tra i libri. Mi sono messo a scrivere”
Come sai, sono anch’io del medesimo parere. Il primo capitoletto, Ossessione, illustra chiaramente il mio pensiero: “ […] Mi sono sempre domandato se non sia il caso di tacere invece di ammorbare il prossimo con un ennesimo romanzo. Sono dell’idea che la scrittura rappresenti l’eccezione e che il silenzio, soprattutto oggi, di fronte al chiacchiericcio dei tanti, rimanga la scelta più leale, l’unica strada davvero percorribile. A meno che non si avverta una necessità profonda, il bisogno sincero e impellente non di raccontare una storia ma di condividere un ragionamento con il lettore per farne tesoro insieme. Avere a cuore un argomento al punto da non riuscire a liberarsene.” Ecco, direi che queste sono le ragioni che mi spingono a scrivere. La letteratura, per quanto mi riguarda, è un’operazione di conoscenza di sé. E un modo per affrontare le mie ossessioni. Dopodiché, se avverto che queste ossessioni riguardano anche gli altri, allora decido di farne un libro, per condividere con i lettori il risultato del mio percorso. Del resto, I famelici è la storia di una nevrosi collettiva. La nevrosi della piccola borghesia italiana. Cioè, tutti noi.
Secondo te è più giusto scrivere in modo esplicito di sé stessi piuttosto che tentare la via del raccontare storie d’invenzione, come in genere ha fatto sostanzialmente la narrativa?
Ho sempre fatto ricorso all’autobiografia per restituire verosimiglianza al contesto, o alla routine della vita dei personaggi, nient’altro. Sono dell’idea che difficilmente la vita di uno scrittore sia interessante al punto da meritare di essere raccontata: per di più, a pagamento. Di certo, non la mia. Ne I famelici era diverso. Era la forma di narrazione che lo esigeva, una forma ibrida.
Ho la sensazione che il genere Romanzo stia perdendo il suo primato. Forse, anche a causa dei tempi bui e soprattutto complessi che stiamo vivendo, mi sembra si stia consolidando presso una parte di lettori, senz’altro presso numerosi autori, l’esigenza di scavare nella verità più intima delle cose, senza infingimenti. È come se il patto tra lettore e scrittore abbia bisogno di essere rinsaldato, oggi. In altra parole, la mia opinione è che il Romanzo, con tutte le sue regole – regole che nel corso degli anni si sono andate cristallizzando finendo per somigliare a degli autentici diktat –, la messe d’ingredienti che contribuiscono a plasmarlo a uso e consumo del lettore (trama, protagonista, antagonista, epilogo, colpo di scena); con tutto il suo lavoro di fiction costruito intorno alla materia di cui si sente l’urgenza di parlare – il “cemento bruto”, direbbe Franchini –, alla lunga stia mostrando un deficit di sincerità. Ora, se è vero che la letteratura è un mezzo per sondare le inquietudini più recondite che ci attraversano; uno strumento per indagare negli oscuri conflitti che si celano dietro l’ipocrisia di facciata dei nostri sorrisi; se è vero che la letteratura ha il compito di mettere i lettori davanti alle loro responsabilità, è anche giusto che l’autore metta prima di tutto in gioco se stesso. Ecco perché ho fatto ricorso all’elemento autobiografico. Detto questo, ricordo sempre a me stesso una frase di un grande della nostra letteratura, Pontiggia: “In arte la sincerità esige invenzione, e si misura secondo la verità dello stile”. Ecco, direi che il risultato più significativo raggiunto dal mio libro – quantomeno, quello che ho inseguito principalmente –, è la sincerità della lingua; al di là della fiction, che pure non manca.
Brevi capitoli, tutti con un titoletto che introduce il lettore alla lettura, com’è nata questa forma?
Nasce dalla necessità di fornire al lettore una chiave interpretativa il più esaustiva possibile della vita dei due protagonisti. Una vita come tante, ma, come tante vite, composta da infinite sfumature. Nel corso dei secoli la sfida della letteratura rimane sempre la stessa, quella di afferrare, contenere – restituire il senso, perfino – di un’esistenza. Una sfida persa in partenza. Questo non toglie che ci si possa giovare del percorso nel frattempo compiuto, non tanto per capire le vite degli altri, ma qualcosa in più di noi stessi. In questo senso, la narrazione per frammenti mi sembrava più efficace, una sorta di mosaico composto da innumerevoli brani di vita.
La narrazione è costellata da riferimenti a personaggi della cultura italiana, da Dino Risi a Guccini, da Antonio Pascale a un film: In nome del popolo italiano, ecc. cosa rappresentano per te?
Poi c’è Fellini, La Capria citato più volte. Straziami ma di baci saziami, anche. Nel capitoletto “Intellettuale” racconto di Silvio Perrella, un punto di riferimento imprescindibile per me.
Questo è un libro che si affida alla letteratura per superare i non pochi cliché che costellano la nostra vita. Quello che soprattutto m’interessava affrontare – e magari superare –, è il luogo comune che vede nella piccola borghesia il capro espiatorio di tutti i mali del Paese. Ma nel libro si affronta anche il racconto della città (nel rassicurante cliché che insegue la Madre, nella visione ideologicamente posticcia che il Figlio aveva nei suoi anni da studente), e infine la stucchevole mitizzazione di certo cinema italiano, a scapito del presente. Detto questo, credo che alcuni grandi autori cinematografici meritino di essere trattati al pari dei grandi autori letterari del nostro Novecento. A tale proposito, mi sembra molto interessante la riflessione del maestro La Capria intorno al personaggio di Pinocchio: l’unico personaggio, a suo giudizio, della letteratura italiana. Voleva dire che, se è vero, come è vero, che un personaggio deve avere la capacità di essere uno specchio nel quale tutti possano riconoscersi, non esiste personaggio nella letteratura italiana capace di riflettere in un colpo solo l’indole, il modo di essere, i vizi e le virtù, i tratti salienti del carattere italiano come Pinocchio. Da questo punto di vista, credo che Giovanni Busacca e Jacovacci Oreste de La grande guerra, rispondano nettamente a questa necessità, dando un piccolo schiaffo morale al nostro stupendo, ma spesso elitario, ‘900 letterario.
Mi ha molto colpito il rapporto con i tuoi famigliari, con tuo padre, questo libro è stato scritto anche per loro?
Non saprei. Credo che il libro sia servito soprattutto a me, per analizzare le ragioni di uno scontro; per ricercare le tracce di un percorso comune che ci permettesse di riavvicinarci. Alla fine, grazie alla letteratura, ho scoperto che qualcosa ci legava. Anzi, ho capito che le ragioni dei nostri scontri, così come la possibilità di un eventuale riconciliazione, s’intrecciavano con la Storia, con il lento, inarrestabile crepuscolo della mia Italietta: la piccola borghesia italiana oggi in crisi. È in crisi la generazione dei padri, che, con grandi sacrifici e ancor più numerosi espedienti (i soliti subdoli stratagemmi dei famelici per aggirare le regole; le regole di una comunità di cui nessuno di essi si sente parte, spinti come sono tutti da un individualismo sfrenato che, a ben vedere, è lo specchio fedele del Paese), ha raggiunto quel benessere inseguito da sempre; un sogno di emancipazione sociale che col tempo, però, s’è rivelato un incubo capace di generare solo frustrazione. È in crisi la generazione dei figli che, secondo i piani, avrebbe dovuto ricevere il testimone e concludere quella scalata intrapresa dai genitori. Ma nessuno dei traguardi che, per la verità, erano stati più i padri a vagheggiare, benché ne fossero loro i protagonisti, è stato raggiunto. È andato tutto in fumo. Ecco, quando ho capito che questa vicenda attraversava la vita di tutti noi, e che il ritratto che stavo per tratteggiare, altro che il legame tra un padre e un figlio, tra una generazione e l’altra, riguardava invece un pezzo molto più ampio del Paese, ho deciso allora di scrivere un libro.
Siamo passati da un’Italia in cui si mangiava il pane che avanzava il giorno prima, anche se non era fresco, a un paese dove tutto si compra, si divora e si butta. Siamo per questo più famelici?
No. Siamo semplicemente – e definitivamente – diventati dei consumatori. La mutazione socio-antropologica che si paventava un tempo è ormai compiuta.
I miei famelici sono altro. È quel proletariato nato nell’immediato Dopoguerra che, grazie al benessere economico degli anni del Boom, è riuscito a emanciparsi da un destino da subalterni cui sembrava inesorabilmente condannato. Poi sono arrivati gli anni ’80, un altro tipo di benessere, e tutti i sacrifici che hanno seguitato a fare sono serviti per accumulare status symbol a buon mercato; a ben vedere, servivano a colmare un vuoto esistenziale. Da qui la frustrazione e la crisi. Per rispondere alla tua domanda, direi che il Paese per intero, come i famelici, ha commesso l’errore di confondere il benessere con la felicità.
Napoli cos’è? L’unica città in cui puoi vivere o un riassunto del mondo?
Non so. È la mia città e le sono molto legato. Ma non ho mai citato il suo nome in nessuno dei quattro libri che ho pubblicato finora. Mi sembra che Napoli e lo storytelling che persino suo malgrado le è stato ritagliato addosso, abbia finito per oscurare i napoletani in carne e ossa, riducendoli allo stato di mere comparse. Non sopporto i cliché di cui la città è vittima e carnefice allo stesso tempo. Dalla difesa a spada tratta, fino al luogo comune che la dipinge come la capitale della criminalità. A pensarci, ora, direi che tra i famelici andrebbero senz’altro annoverati i mezzi d’informazione; nel senso che, come i famelici, adoperano un linguaggio esasperato, ben lontano dall’equilibrio di giudizio che dovrebbero garantire. Invece, come si dice oggi, ragionano con la pancia e si rivolgono alla pancia degli italiani: meglio, dei consumatori. L’antidoto è la letteratura. Che spesso viene confusa con la narrativa. Molti narratori, oggi, tendono a cavalcarli, questi fenomeni, invece di prenderne le distanze. Basti pensare al numero inverosimile di romanzi in cui sullo sfondo della vicenda raccontata s’affaccia puntualmente la città; città senza la quale, secondo me, molti di questi romanzi non riceverebbero attenzione da parte dell’editoria. Ti dirò di più: è diventato un mestiere a sé. Dalle mie parti, ormai, ho preso l’abitudine di distinguere tra gli scrittori, scrittori e basta, e gli scrittori napoletani.
Fai il libraio, nel romanzo sono citati molti libri… hai un rapporto quasi carnale con il libro?
Dedico la maggior parte del mio tempo a scrivere, leggere, studiare; vendere libri. La letteratura è una scelta di vita, per quanto mi riguarda; un rifugio dai mali del mondo e, allo stesso tempo, uno strumento per comprenderlo, il mondo. E un mezzo, così, per trovare la forza di affrontarlo. Devo tutto alla letteratura.
Hai mai avuto la sensazione che stavi scrivendo un libro troppo rivolto al passato?
No, non direi. La domanda sottesa di questo libro è piuttosto precisa: cosa siamo diventati? Inoltre, il racconto di quegli anni; lo slancio, la voglia di fare di quella generazione, mi serviva per metterla in relazione con lo spirito di sacrificio della mia generazione. Quando si scrive un libro il pericolo di pontificare, o di puntare l’indice contro gli altri può fare capolino da un momento all’altro. Io preferisco di gran lunga farmi autocritica. Da questo punto di vista, direi che è un libro che guarda soprattutto al presente. Dopodiché, aggiungo anche che se non impariamo a guardarci indietro, a imparare dagli errori del passato, dubito fortemente che si possa mai compiere qualche passo in avanti.
Scrivi che l’animo umano è insondabile, aver lavorato a tessere questa trama della memoria tua e degli altri te l’ha chiarito un po’ di più o ne ha ingarbugliato il filo?
È la solita illusione di chi fa letteratura, l’idea cioè che attraverso questo strumento si possa afferrare il senso di una vita. Non è così. Malgrado tutti gli sforzi che si possano fare, l’uomo rimane una macchina complessa e in qualche modo inesplicabile. Dopotutto, è questo che ci affascina, il mistero inafferrabile che si cela dietro ogni storia. E allora ne scriviamo. Un po’ per esorcizzare l’angoscia di ciò che ci è ignoto, un po’ per tentare di fare luce. Alla fine, come ti dicevo, quello che conta è il percorso, e quanto siamo cambiati lungo il tragitto, insieme, autore e lettore; e il legame che s’è andato stabilendo nel frattempo. La letteratura crea ponti tra le persone. Non è poco.