Sbircia da dietro la porta prima di entrare. Eccola, è lei, la mia Gemma. Dice di aver letto il mio pezzo, mi guarda sconsolata.
– Ma cossa xea sta roba? Ma cosa hai scritto? Mica sono io quella, le cose non sono andate così.
Gemma non si lamenta mai ma oggi, per la prima volta, mi aggredisce con quelle sue astiose parole. Mi rendo conto che il tema è caldo, ma non pensavo di sconvolgerla così tanto.
– Ma Gemma, guarda che sei stata tu a dirmi di aver tribolato tanto per trovare lavoro, e quanto ci hai sofferto.
– Sì, ma non sono come tu mi hai descritta. Nel tuo pezzo sembro una cretina, scusami. Inviavo le mie domande, sì, ma non spieghi che tipo di lavoro cercavo, che momento economico era, così sembra proprio che dipendesse da me, che fossi io la cretina. Ma xeo el modo de scriver?
– D’accordo, Gemma, ma mica potevo scrivere un trattato socio-economico, volevo concentrarmi su di te, nulla più. Mi sembrava di aver espresso bene il tuo calvario, o no?
Rileggo il pezzo, cercando di capire. Ma lei mi interrompe:
– Guarda qui: decise di collezionare quelle risposte in una cartellina dal color verde brillante, soprattutto per quelle frasi conclusive che sembravano offrirle bagliori di speranza. Pensito che sia sema? In una cartellina dal color verde speranza? Te podevi scriver “la speranza è l’ultima a morire”, sarìa sta’ la stesa roba. Che fantasia ciò.
Gemma non è solita parlare in dialetto, ma oggi è talmente incavolata per quella pagina secondo lei così mal scritta, da volermi vomitare addosso tutto il suo disprezzo intercalando parole in quel suo dialetto imperfetto. Effettivamente, però, Gemma non ha tutti i torti, l’ho fatta semplice, troppo semplice, per non dire banale. Ma voglio comunque difendere il mio scritto. Dicono che bisogna farlo sempre.
– Magari, Gemma, preferivi che scrivessi che ogni volta buttavi tutte quelle lettere nel cestino?
– Beh, guarda, forse era meglio, più veritiero, vedi cosa puoi fare perché così proprio non va – e così dicendo se ne esce dalla stanza.
Osservo la tastiera del mio computer, i tasti già zampettano.
– Gemma ha ragione. Questa pagina fa schifo, è tutta da riscrivere. Non dice nulla a lei figurarsi a me o a qualcun altro.
– Eh già, fai presto tu a parlare, te ne stai lì bello comodo ad aspettare che qualcuno pigi su quei tuoi tasti, neanche devi metterci della fantasia, tu, solo attesa passiva.
– E già, solo attesa passiva, già è una noia così, se poi tu mi usi per scrivere delle boiate, pensa che divertimento.
– Boiate, per te sono boiate. E poi guarda che non è mica facile scegliere le parole appropriate, pigiare sulle giuste consonanti e vocali per fabbricare suoni che abbiano un senso, il senso per la nostra storia. Ci vuole una mente sopraffina per riuscire a farlo.
– E tu saresti quella mente? Questo mi vuoi far credere? Ma te lo ha ordinato il medico di scegliere questa strada?
– Sì, d’accordo. Forse questa pagina in effetti è troppo generica. Ma dammi un po’ di tempo, ho bisogno di ispirazione.
– Sentila, ma chi ti credi di essere? L’ispirazione, ma ti vuoi dare una mossa? Dostoevskij dei miei stivali! Ah, senti, potresti anche cercare di pigiare quei tasti con un po’ più di delicatezza? La tastiera sarà pure wireless ma guarda che ormai stento a comunicare con lei, a leggere i suoi comandi. Ma non ti sei accorta che quando pigi la lettera “l” salta fuori una chiocciolina? Ormai è impazzita pure lei. Fra un po’ scriverai in ASCII e allora vedrai che ti dice l’editore. Tra l’altro, a cercare di seguirla mi sta venendo un mal di testa…
– Ma ti pare che mentre devo scegliere con accuratezza quali tasti utilizzare debba cercare anche di modulare il mio tocco? Ma chi ti credi di essere tu? Ma guarda che pretese.
– Ma se mi fai male te lo devo dire, no? O pensi che me ne dovrei stare zitto e soffrire in silenzio? Almeno scrivessi bene, scusa se insisto…
– Il fatto è che sei vecchio, ti ho usato troppo, e se non pigio forte i tasti non funzionano.
A queste parole il mio computer inizia a piangere.
– Ma dai, non fare così, scusami, non volevo buttarti giù, sicuro ci sarà un rimedio. E così dicendo, con delicatezza pigio alcuni tasti et voilà, una bella faccina sorridente appare sullo schermo. Ma ecco il trillo per l’email della mia amica Paola, si era mostrata entusiasta di voler leggere il mio pezzo. Era passata a trovarmi quando lo stavo ultimando:
– Dai, Susanna, fammi leggere il tuo pezzo, dai che sono curiosa, ci hai lavorato così tanto, lo sai che me ne intendo, io.
Anche questa volta Paola saprà incoraggiarmi, lo sento, lo fa sempre. Vediamo un po’. Apro quel messaggio, ed ecco il mio computer che torna a lamentarsi:
– Ahi! Di nuovo? Ma che sei sorda? Ti ho detto di far piano.
– Guarda che è il mio solito modo di battere i tasti, e ti ho spiegato perché, porta pazienza, ti porterò a farti vedere. Aspetta che leggo ‘sta email. Ecco, ecco, l’email di Paola. Nooo, pure lei, ma che dice?
– Senti cara, lo sai che ti voglio bene e so che ti ho sempre incoraggiata, ma proprio per questo desidero essere sincera con te. Scusami, ma questo pezzo proprio non va. Tutto banale. Tutto da rifare. A chi vuoi che interessi ‘sto racconto e, lasciatelo dire, banali pure le frasi che hai scelto quei rifiuti costituivano un affronto inaspettato che proprio non riusciva a digerire. Ma che originale! Il tocco dell’artista, proprio.
– Ma come si permette, mi prende in giro?
– Oppure quest’altra Alternava momenti di abbattimento a momenti di intensa rabbia che la rendevano irritabile, ma si può sapere come stava ‘sta tipa? Depressa? Incavolata? Nervosa? Non sei per niente chiara, non si capisce nulla.
Bah, pure lei, adesso le rispondo e le spiego, che l’ho scritto in fretta, che stavo un po’ depressa pure io quel giorno, che uno scrittore mica sta sempre in forma, siamo esseri umani pure noi, e i giorni non sono mica tutti uguali, giusto? Ah, ma aspetta un po’, l’email non è finita.
– Scusami, cara, ma non perdere tempo a rispondermi, guarda, proprio non ne vale la pena.
D’accordo, Paola, non perderò tempo per risponderti, così la smettiamo con ‘sta sofferenza, i tasti sono bollenti e il mio computer continua a lamentarsi. Ma Paola non si ferma qui:
– Secondo me, potresti provare col giornalismo, lì puoi usare più frasi fatte, clichés, ma, ti prego, lascia stare i romanzi, leggiteli se vuoi, ma non ci mettere le mani, non sarai mai una scrittrice, credimi, e guarda che io me ne intendo, ho letto tutta la linea Harmony, e lì impari proprio un sacco. In fondo, meglio scoprirlo subito che non ci sei tagliata invece di perdere tempo, giusto? Vedi quanto bene ti vuole la tua amica? Stammi bene. Ciao.
“Vedi quanto bene ti vuole la tua amica?” E meno male, ma pure questa, è arrivata la critica del New York Times. Si è letta tutta la linea Harmony, lei, ma pensa un po’! Ma come mi è venuto di farle leggere il pezzo.
In fondo, però, forse non hanno tutti i torti. Leggo e rileggo questa pagina, scorro le parole a una a una, ma che cosa ho scritto? È proprio vero. Banale. Tutto banale. Forse il soggetto stesso è banale, ovvio, direi. Chi non si è trovato a doversi confrontare con difficoltà nella ricerca di un lavoro, soprattutto se il primo! Devo metterci qualcosa di nuovo. Forse è proprio la scelta delle parole che non funziona, banali. No, non mollo. Adesso mi rimetto a scrivere, e glielo faccio vedere io a questi.