Per diventare scrittori si deve per forza leggere classici? Voi che ne pensate? Intanto chiariamoci un momento sul concetto di classico. Classico può significare cose diverse. Un classico non è solamente un libro antico, un libro di un’altra epoca. Ogni epoca esprime i suoi classici. Alcuni classici sono stati scritti ieri o ieri l’altro. Qualche esempio americano? Beh, che so, Il lamento di Portnoy di Philip Roth, ormai considerato universalmente un classico del Novecento, e un classico tout court, è stato scritto solo 50 anni fa. Ma ce ne sono anche di più recenti. American Psycho, è un romanzo di Bret Easton Ellis uscito nel 1991, 30 anni fa. Potremmo fare esempi anche in Italia: Seminario sulla gioventù, esordio luminoso del 1984 di Busi, o Camere separate di Tondelli del 1989, o Sostiene Pereira di Tabucchi (1994) sono ormai considerati dei classici. Secondo Calvino, uno che di classici se ne intendeva, ne scrisse anche lui qualcuno, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. E anche: “D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”.
Io propongo di trattare i classici quindi come dei libri qualunque, di dare loro almeno le stesse chance di lettura che diamo agli altri libri. Non facciamoci intimidire dall’etichetta, dal blasone. Un classico prima di diventare classico era un libro come un altro, pensateci. Poi è diventato classico: per la sua bellezza, per la sua originalità, per la sua forza, tutte qualità che gli hanno permesso di esprimere la propria epoca, ma anche di scavalcarla, di andare oltre e diventare universale, fuori dal tempo. Insomma, è obbligatorio leggere classici per diventare scrittori? No, non è obbligatorio. Tuttavia, non leggerli per principio, non dargli nemmeno una chance, è una cazzata fenomenale!